Noi veniamo dallo spazio

Non ho precisato che Sridhar, l’amico di Meeraj, la prima sera mi ha consigliato di visitare le grotte di Ajantha. Non ci sarei mai andato, altrimenti.
Inoltre, manca un elemento importante nella nottata di ieri:
“Decido di cercare un ostello, nella zona della stazione come mi ha consigliato Babu. Gli auguro buona fortuna e prendo il largo nelle strade di Madurai, illuminate dai lampioni gialli ai vapori di sodio.
Mentre percorro le strade popolate di cartacce, capisco di essere arrivato finalmente in India. Che India è se non ci sono le vacche per strada? Guardando meglio, infatti, alcune delle cartacce sono in realtà dei cartocci. Qualcuno ha lasciato porzioni di cibo negli angoli, così che i bovini se ne nutrano. Prendersi cura degli animali sacri è una faccenda seria.”

Lezione di ieri: Quando affitti una camera economica, ispezionala prima di pagare, non dopo.
Martedì 10/05/2022 Madurai (Tamil Nadu, India)
Un ventilatore, una lampada accesa Chi sono? Dove mi trovo? Ah sì, mi ricordo, questa è l’India e questo è il letto che ho affittato ieri notte a Madurai. È mezzogiorno, sono giusto in tempo per raccogliere le mie mercanzie e sloggiare. Per sicurezza scendo a chiedere a che ora devo lasciare la camera. Mi informano che la tariffa delle camere vale ventiquattr’ore, perciò posso stare qui fino a stanotte. A quanto dicono, qui è la norma. Mi capita molto spesso di arrivare tardi negli ostelli e negli alberghi, così da avere poco più di dodici ore a disposizione per dormire, rassettarmi e sgomberare. Molto spesso non ci vado neanche perché non ha senso avere a malapena il tempo di dormire, senza accorgersi di esserci dentro. Tutta questa razionalità rasenta il genio, l’orario di partenza dipende dall’orario di arrivo.
Invece di riempire lo zaino in fretta e furia, prendo solo il marsupio e il telefono per andare a visitare il tempio. Magari compro anche da mangiare.
Durante il giorno, le vie della città sono gremite, i negozi sono aperti e perfino sui marciapiedi si compra e si vende. Ancora di più che in Kerala, gli edifici ai lati delle strade sono ricoperti di insegne e cartelloni pubblicitari colorati, mentre sopra ai marciapiede ci sono fasci e grovigli di cavi elettrici neri, malamente legati insieme.
Anche i vestiti sono colorati, così come le ghirlande di fiori in vendita intorno al tempio e il tempio stesso, con quattro torri ricoperte di piccole statue. Il tempio Sree Meenakshi Amman è cinto da un altissimo muro, con quattro portali in corrispondenza dei punti cardinali. Ogni portale è decorato con un’immensa torre che si restringe verso l’alto, come un tronco di piramide. Così, sopra ogni portale ci sono quasi venti metri di piccole cornici, a forma di portico colonnato. Ogni portico è sormontato da un fregio. Sembrano piccole cornici, ma probabilmente ciascuna è alta un metro. Nella foresta di colonne ci sono statue di dèi, esseri mostruosi o animaleschi. Il complesso è verniciato di blu, arancio, verde e rosso. Il marmo bianco qui non è popolare come in arabia, probabilmente gli indiani lo dipingerebbero.
Davanti alle porte del tempio c’è la polizia, a controllare chi entra. Non si possono indossare le scarpe, e qualsiasi apparecchiatura fotografica è vietata per motivi religiosi. Prima di entrare bisogna depositare tutto in un apposito guardaroba custodito e fare la fila per essere perquisiti. Io non deposito il marsupio proprio da nessuna parte, piuttosto torno a riporlo in camera, dove sta sotto chiave. Mi porto solo il portafoglio e, ovviamente, il passaporto. Già che ci sono, pago anche il resto del prezzo della camera. Stamattina alla reception c’è un altro uomo, che mi chiede quattrocento rupie. Cento rupie risparmiate, bastava attendere l’orario giusto e l’uomo giusto. Viaggiare senza soldi aiuta a risparmiare anche in modi imprevedibili.
Tornando al tempio, deposito le scarpe e le calze, prima di entrare nello spazio sacro. Ho l’impressione che gli europei tendano a entrare con le calze, ma chi lo fa deve sembrare terribilmente ridicolo e anche un po’ offensivo.
Dentro il primo muro di cinta ce n’è un secondo, che va aggirato per raggiungere la porta di accesso al cortile centrale, circondato da un portico colonnato con un alto basamento a bande verticali rosse e bianche. In questo spazio interno è stata ricavata una grande vasca piena d’acqua, utilizzata per le abluzoni in certe occasioni particolari. Il tempio, a Nordovest della vasca d’acqua, è fatto interamente di pietra scura, color antracite. O forse è scura solo perché è sera. Le colonne sono scolpite a motivi geometrici, con animali e mostriciattoli che si sporgono dai capitelli, guardando in giù. Il soffitto è uno spettacolo incredibile di rosoni colorati, molto colorati, con degli accostamenti cromatici che in Europa non ci sogneremmo neanche. Da noi, quando dobbiamo decidere dei colori brillanti da aggiungere, per dare vivacità, scegliamo un tema. Gli indiani sono in tanti, sono sempre stati tanti, e quando si tratta di dipingere un tempio non vogliono scontentare nessuno. Perciò scelgono tutti i colori, insieme.
A destra c’è una grande statua di Ganesha, rappresentata come una pingue elefantessa, seduta a gambe incrociate. Ha in mano il moncone di una delle zanne. Accanto a lei si trova Sri Meenakshi, che sarebbe una delle forme in cui è apparsa sulla terra la dea Parvati, moglie di Shiva.
Più o meno di fronte a queste due divinità, c’è l’ingresso al corridoio a quadrilatero, che circonda a sua volta il tempio interno. Accanto alla porta c’è un grande cartello, a specificare che solo gli induisti possono varcare la soglia. Non resta quindi che proseguire oltre, scoprendo altre sale e grandi statue, di pietra. Non è solo triste e grigia pietra, come quei noiosi capolavori scultorei che creiamo noi italiani. La statua è vestita di un cascata di ghirlande floreali, che aggiungono arancione, verde, bianco rosa e tante altre tinte brillanti.
Quando mi sembra di aver concluso la breve visita, torno fuori a riabbracciare le mie scarpe. Mentre sono ancora a spasso per la strada che circonda le mura esterne, un uomo mi chiama dal proprio negozio. “Se vuoi fare un giro sull’attico dell’edificio si vedono le torri da più vicino.” Il negozio occupa un edificio a tre piani, pieno di sculture di legno, mobili, soprammobili, tappeti, indumenti e tutto quello che si possa desiderare di riportare a casa da un viaggio in India. Dall’attico si vede molto meglio la torre Sud, e si intravede addirittura la cupola dorata del tempio centrale, tra le chiome degli alberi. Il proprietario si chiama Paresin, chiede dove sono diretto. Io ho in mente di lasciare Madurai adesso, per allontanarmi dalla città già oggi e proseguire a Nordovest. “Sei già stato alla cerimonia serale, nel tempio?”, chiede lui. C’è una cerimonia ogni sera, davvero? Da bravo ignorante, non mi sono documentato su un bel niente, sono venuto e basta. “La cerimonia dura circa un’ora e si tiene ogni sera alle nove. Di solito i turisti vengono apposta per assistervi.” Sembra interessante, tra l’altro sono fortunato perché c’è proprio ogni sera. Forse è il caso di valutare questa possibilità, intanto entriamo a vedere gli scialli di cachemire, seta e sciatush. Ne comprerò uno per la mamma.
Dopo aver aperto cento scialli di tutti i colori e fogge, la scelta è fatta, prendo quello rosso. Aggiungo una nota interessante: avete presente quei motivi a goccia con la punta arricciata, arabescati con decorazioni complicate? Quelli che andavano di moda una cinquantina di anni fa nelle trapunte e i copriletto. Ecco, questi scialli sono pieni di quei disegni, sospetto che l’origine sia indiana. Esco per tornare a prendere lo zaino, degli altri soldi e mi presento di nuovo al negozio, per completare l’acquisto. Fortunatamente gli scialli tengono poco posto, così riesco a incastrare il nuovo acquisto nella tasca esterna, ben avvolto in una busta di plastica. Mentre aspetto le nove, faccio quattro chiacchiere con Paresin, mentre il suo socio Mohammed sta al piano terra ad attendere i clienti. Non si aspettano altri clienti, ora che è bassa stagione loro due attendono e basta. Il negozio è fornitissimo, perché per anni è rimasto chiuso. A causa della pandemia, il turismo è stato congelato per due anni e loro hanno vissuto qui nel negozio, senza poter trovare alcun lavoro alternativo. Paresin è originario del Bihar, dove si rifornisce di merce. Lassù produrre costa meno, quindi conviene esportare nel Tamil Nadu dove ci sono più turisti. La sua famiglia vive ancora in Bihar, e all’inizio della pandemia lui è rimasto bloccato quaggiù. Ora, lentamente, sperano di rivedere i primi turisti e riparare alle enormi perdite di questi anni. Paresin sa bene che poteva andare anche molto peggio di così, ed è ancora speranzoso per il futuro. Mi offre un tè e insiste perché accetti anche una bottiglietta di acqua minerale, fredda di frigo. Se voglio andare alla cerimonia, posso lasciare lo zaino e tutto il resto qui, saranno al sicuro perché Paresin è un buon uomo.
Fuori dal negozio è già buio e sul muretto lungo la strada ci sono alcune guide turistiche, sedute in chiacchiere. Paresin mi presenta a uno di questi, suo amico. “Buonasera, come stai amico mio?” “Molto bene grazie!” “Come ti chiami” “Sono Riccardo. Tu come hai imparato l’italiano?” Parla incredibilmente bene, nonostante due anni senza turismo. Ha imparato la lingua lavorando per un periodo a Milano, insieme ad un amico indiano che abita in Italia. Parla altre quattro o cinque lingue, oltre al Tamil. Sono un po’ di fretta, ma parlare italiano con un essere umano in carne ed ossa è incredibile, starei qui tutta la sera.
Il tempio è gremito di fedeli, sono probabilmente l’unico turista. Non sono però l’unico bianco, perché ci sono in giro alcuni stranieri, con una lunga tunica e un punto rosso in mezzo alla fronte. L’induismo è così poco conosciuto dalle mie parti, che mi fa un effetto strano vedere quello spilungone lentigginoso, dai capelli rossi, mescolarsi tra gli indiani. Manca poco all’inizio e i fedeli entrano copiosamente nel tempio medio, seguono una rampa ed raggiungono il tempio interno. Non è che questo cartello si riferisce al tempio interno? O forse il cartello serve solo per evitare che entrino centinaia di turisti a rovinare la cerimonia. O magari è un vecchio cartello che si sono dimenticati di togliere. Tutte e tre le ipotesi mi sembrano decisamente improbabili, mentre gli indiani mi passano davanti e varcano la soglia. D’altra parte mi sto fidando di una scritta sul muro, non vorrei scoprire domani che mi sono fatto degli scrupoli inutili e sarei potuto entrare senza problemi, senza offendere nessuno. Avanzo fino alla soglia, accanto allo stipite sinistro, guardandomi intorno, mentre altri indiani mi superano, distrattamente. Sicuramente posso arrivare fin qui, sul confine. Mi volto e cerco di incrociare lo sguardo di qualcuno. Nessuno mi presta particolare attenzione, il ché è un buon segno, finché mi faccio avanti e chiedo a una coppia se secondo loro posso entrare, anche se non sono indù. “Certo, non c’è problema!” “Ah, grazie, no perché quel cartello là fuori dice che…” entrambi sono già lontani, andavano di fretta.
Forse entrando dovrei prosternarmi davanti a una statua, o almeno fare qualcosa, ma ci passo accanto e seguo la corrente. In fila per due o per tre, i fedeli scalzi percorrono il corridoio quadrato. Anche qui il soffitto policromo  rende l’ambiente molto vivace, nonostrante le pareti nere rischiarate da lampade e candele. Per colpa di Hollywood, il mio cervellino sta associando questa atmosfera al film di Indiana Jones con il tempio della dea Kalì. Forse questa sensazione è dovuta anche alla musica di tamburi che proviene dal centro del tempio. Mentre giriamo in tondo, mi guardo attorno, osservo gli idoli e le decorazioni, i fedeli che pregano e i loro vestiti. Non so quasi niente di induismo e non ci sto capendo assolutamente niente. Faccio un secondo giro, per rivedere tutto quanto, poi esco dal vortice e aspetto, in mezzo alle colonne. Intorno a me molti sono seduti per terra, a bambe incrociate, così mi siedo anch’io. Darò meno nell’occhio nonostante la kia facvia europea, i miei vestiti europei e la mia fronte immacolata.
Qui fuori stanno iniziando i preparativi, appoggiato a una colonna c’è un tridente, con le punte avvolte da pezzi di stoffa. Uno dei sacerdoti arriva e ci versa sopra dell’acqua. È quasi tutto pronto.
Da una delle porte del tempio interno esce una portantina argentata, con ai lati due porticine oscurate da tende rosse ricamate. Dietro alla portantina ci sono alcuni sacedoti a torso nudo, vestiti con il lungi. Dietro di essi, parecchio suonatori di trombe e tamburi, attorniati dai fedeli. Si dà fuoco alla stoffa sul tridente, che precede il baldacchino e avvia la processione lungo il corridoio. Procediamo di buon passo, incalzati dal ritmo vivace delle trombe stridule e dei tamburi. Giriamo per tre volte attorno al tempio, suonando e pregando, per poi imboccare la porta che conduce al tempio esterno. La portantina si ferma nel corridoio, appoggiata su due cavalletti. In corrispondenza dei cavalletti c’è una sorta di mandala a strella, composto per l’occasione sul pavimento di pietra. Un sacerdote agita una specie di ventaglio di piume, mentre altri continuano a suonare e a pregare, utilizzando delle lampade a olio dalle strane forme. Un vegliardo dalla lunga barba canuta sta seduto accanto al mandala, ricevendo alcuni doni dai fedeli radunati intorno. Gli altri sacerdoti pregano camminando in tondo attorno alla portantina e suonando dei campanelli. Inaspettatamente, accanto a me compaiono due viaggiatori dai capelli ricci, che erano qui fuori ad aspettare l’uscita del corteo. Terminate le preghiere, la portantina viene sollevata nuovamente e riportata all’interno del tempio, seguita dai fedeli.
Narro ai miei colleghi delle mie gesta e di quello che ho visto all’interno del tempio, fino a convincerli a entrare. Tuttavia, io sono solo uno e, come gli indiani, ho addosso solo i vestiti. I miei due soci sono vestiti meglio di me e hanno un piccolo zainetto in spalla. Inoltre mi stanno appiccicati, invece di disperdersi. Inevitabilmente, un indiano meno permissivo degli altri ci nota e ci manda fuori. Non tutti sono tolleranti allo stesso modo.
Dato che è tutto finito, usciamo dal tempio, passando a riprendere marsupio e zaino. Così faccio due passi con i due nuovi venuti, nel centro di Madurai.
“Come vi chiamate?”
“Ghili e Toto.”
“Toto come la band dei Toto?”
“Proprio così”
I due sono israeliani e hanno a disposizione tre settimane per attraversare il Sud dell’India, da Chennai a Kochi. Mi chiedono informazioni sulla preghiera alla quale abbiamo appena assistito, ma ne so anche meno di loro. Anzi, alle loro spiegazioni rimango così impressionato da credere che abbiano pagato una visita guidata. “No”, dice Toto ridendo, “Abbiamo chiesto al dottor Google.”
In pratica, nella portantina c’era una statua di Shiva, che viene portato ogni sera a fare visita alla moglie, Sri Meenakshi. Tutto il resto dei simboli e degli oggetti utilizzati restano un mistero, non sono certo io l’indù giusto a cui chiederlo. Ghili e Toto sono in India già da due settimane e hanno idee contrastanti rispetto a questo paese. Da un lato la ricchezza di monumenti, di cultura e il cibo variegato, stupefacenti. Dall’altro il frastuono dei clacson per strada e la curiosità invadente degli indiani, irresistibilmente attratti dai turisti. Il primo problema sta facendo impazzire Ghili, che è un compositore e le orecchie gli servono per lavorare. Ha seriamente il timore di riportare danni permanenti. Il secondo problema l’ho riscontrato anche io, ma mi sembra solo una curiosità genuina e porto pazienza, anche se mi chiedono le stesse cose in dieci ogni giorno. Evidentemente non mi rendo ancora conto, rispondono loro, che per questa ragione stanno perdendo il senno. “Gli hai mai raccontato delle balle? Così, tanto per cambiare un po’?” No, non l’ho mai fatto, ma ho molta pazienza.
I due hanno in progetto di cenare da una delle bancarelle ambulanti, che costano pochissimo. Mi pare un’idea brillante, una decisione arguta, un piano eccellente. È da molte righe che non menziono il cibo, perché in effetti non ho mangiato un accidente dalle undici di ieri mattina, quando ho pranzato a mango e cocco. In effetti, ora che ci rifletto, ho una certa fame.
“Hai già assaggiato la dosa?”, mi chiedono loro. Non so neanche che cosa sia, quindi sicuramente la risposta è no. “È famosissima nel Tamil Nadu, bisogna che la mangi.” Faccio cenno di sì con la testa, ma non credo chenmi fermerò in questo stato abbastanza a lungo. Diciamo che, se non la mangiamo stasera, allora è persa per sempre.
I miei soci, abituati a cenare così, hanno già individuato l’ambulante giusto, con una certa ressa tutto intorno e parecchio vapore che sale dai paioli. Deve essere quello giusto.
Per cinquanta rupie a testa ordiniamo uno scodellino di una sostanziosa zuppa di legumi, sapientemente cotti tra i sapori scoppiettanti di un misto di spezie segretissimo.
Mentre aspettiamo la cena, i cuochi sono incuriositi. “Come vi chiamate?”
“Io sono Ghili, lui è Toto e lui invece…” “Riccardo!”
“Da dove venite?”
Ghili solleva la mano destra per aria, con le dita rivolte in su. Muove la mano in cerchio, ammiccando verso l’alto e afferma: “Noi veniamo… dallo spazio!”
“Cosa?”
“Dallo spazio!” Non stanno capendo, secondo me stiamo sopravvalutando il vocabolario dei cuochi.
“Da dove venite?”
“Dallo spazio… dal cielo! Tipo gli alieni, sai…?” Non lo sanno, anzi non hanno capito la battuta e insistono con la domanda, mentre Ghili resta reticente e indica il vapore che sale sopra le nostre teste.
Sto quasi considerando una seconda porzione, ma i miei due soci sono già pronti a passare oltre per cercare un altro posto. Il mio orologio segna già le 23, bisogna pensare a dove dormire. Ci fermiamo un momento in mezzo al viavai, così posso consultare la mappa sul telefono. Domattina avrei voluto partire presto, perché ho ancora undici giorni per attraversare i 3400 chilometri che mi separano da Lahore. Il minimo sono tremilaz lasciando perdere il Forte d’Oro a Jaisalmer. Il primo giorno ho temporeggiato a casa di Meeraj, il secondo giorno ho fatto tardi a causa delle strade del Kerala, oggi non potevo perdermi la cerimonia al tempio. Ora sono le undici di sera, ma non ho ancora un posto per dormire. Non mi va di tornare in ostello. Se parto presto, domani potrei percorrere cinquecento chilometri, fino all’altezza di Bangalore. Da adesso mi trovo su un enorme altopiano molto più secco della costa occidentale. Non c’è la foresta tropicale, ma prevalentemente campi coltivati e pascoli. Che faccio, che faccio, lo faccio? Facciamolo! “Ragazzi, io vi devo abbandonare, vado a campeggiare fuori città così domattina sono già pronto a trovare un passaggio in autostop”
Ovviamente il mio piano lascia tutti perplessi, ma molti sottovalutano le potenzialità campeggiative dell’ambiente circostante. Tuttavia da satellite si vede bene che sulla collina a ovest di Madurai ci sono delle macchie di bosco e alcuni sentieri battuti che dalla strada principale salgono verso la cima. Si tratta solo di superare i quartieri residenziali a bordo strada ed è  fatta. Sono dieci chilometri, due ore di cammino. Parto gambe in spalla.
La prima ora di cammino serve per attraversare la periferia della città, in linea retta. La strada è grande, semideserta e abbastanza illuminata, che nella mia lingua significa che è i lampioni scarseggiano, ma vedo dove metto i piedi. Mi piace la penombra, do già abbastanza nell’occhio a causa dello zaino e della mia andatura lenta.
Cammino indisturbato e fila tutto liscio finché si ferma accanto a me una moto con i lampeggianti rossi e blu. È da dieci giorni che non incontro la polizia, ma giuro che non mi mancava. Mentalmente, apro il prontuario delle risposte evasive, perché i miei piani per la notte sono sicuramente inaccettabili.
“Buonasera. Sei un turista? Da dove vieni?”
“Sì, sono italiano.” Maledizione, il suo fiuto investigativo mi ha già smascherato.
“Dove stai andando?”
“Vado da quella parte….”
“Non hai una prenotato una camera?”
“No, ma a quella parte ci sono diversi ostelli, troverò un posto.”
“Non lo sai che è tardi?”
Lo so che è tardi, per questo vorrei proseguire senza perdere altro tempo, ma non è possibile.
“È pericoloso qui, sei da solo?”
“Sì”, sì che sono da solo, vedi qualcun altro qui intorno?
“Dove sei alloggiato?”
“Ieri ero in un ostello in centro, però non ha un’insegna con il nome. Stasera non so dove starò.”
“Non hai una prenotazione?”
“No, non ho prenotato.”
“Non è sicuro qui, non lo sai?”
“Infatti adesso proseguo, appena possibile.”
Vuole vedere il passaporto e poi continuiamo ancora questa interessante conversazione. Finalmente me ne posso andare, tirando dritto verso la mia collina, senza incontrare nessun altro.
Dopo un’ora faccio una sosta ad una pompa di benzina, per raffreddarmi leggermente e riposare le spalle. Arriva un motociclista a fare rifornimento, mi vede e, appena prima di andarsene, mi domanda se mi serve un passaggio.
Come si può immaginare, non sono convintissimo nell’accettare un passaggio a quest’ora, ma la destinazione è ancora molto lontana e lui mi pare un buon uomo. Accetto.
Piovvigina per qualche minuto, ma la serata si rinfresca considerevolmente dopo la calura del giorno. Dopo poco più di cinque minuti che mi paiono un’eternità, vengo consegnato a destinazione, in quello che pare un punto qualsiasi lungo la strada per Theni. Saluto e ringrazio il mio benefattore, rendendomi conto un attimo dopo che non mi ricordo più come si chiama. Lo chiameremo Maris, giusto per ricordarlo con un nome.
Ora è quasi fatta, mancano poche centinaia di metri. Le mappe non possono più aiutarmi qui, si tratta di trovare un varco tra le case fitte. L’ora tarda gioca a mio favore, nelle stradine non c’è anima viva.
Mi inoltro in silenzio, lesto come il vento, ma evidentemente non tutti sono addormentati. Un piccolo cane inizia ad abbaiare. Taci! Arretra e ne raggiunge un secondo e un terzo, anch’essi kungo la strada. Insiame lanciano l’allarme, fino a che mi sono allontanato, superandoli.
Torna il silenzio,raggiungo uno slargo tra le case e in tre passi attraverso un ponticello, guardandomi attorno per decidere la strada da prendere. Vengo colto in fragrante dai latrati del guardiano di una casa, che sveglia il cane del vicino, che fa rizzare il cane che dorme nell’angolo là in fondo, che richiama un amico da un stradina laterale, che ne sveglia un altro, un altro e un altro ancora. In men che non si dica ci sono almeno dieci bestiacce che abbaiano in coro. Nello stesso momento, inizia a piovere. Ormai lo so che queste carogne hanno solo paura e non si avvicineranno, ma con tutta questa pioggia non posso andare da nessuna parte. Che fare? Accanto a me c’è una piccola casa con una tettoia e le luci accese all’interno. Se qualcuno esce a vedere che succede? Troverà uno straniero a contemplare i gechi sul suo muro, attorno alla lampada, all’una di notte. Talmente assurdo da confondere chiunque. Però questi gechi sono davvero carini.
Da dentro la casa non si fa vivo nessuno, ma mi notano invece i vicini di casa, che mi invitano ad avvicinarmi. Ho palesemente l’aria di uno che si è perso, è quasi impossibile indovinare perché sono qui.
Mi siedo su un grosso mucchio di sabbia umidiccia, ai piedi della piccola veranda di una piccola casa. Mi presento ad Aja, il marito di Kajamari. I due sono una giovane coppia e vivono insieme alla madre di lui. Possiamo comunicare solo con un inglese molto semplice e i due si scusano ripetutamente per questo. Non c’è problema, l’importante è capirsi.
“Stai cercando un albergo?”, chiede Aja.
“Ecco, ehm… no, sto cercando un posto per campeggiare, sulla collina qui dietro.”
“Sulla collina? Ma è pericoloso!”
Adesso sono pericolose anche le colline, che parrebbero così rotonde e pacifiche. Prima di andare nel panico, però, meglio indagare sulla natura del pericolo.
“Ci sono i serpenti sulla collina, li vediamo sempre!”
Diavolo, ci deve essere un’infestazione, ma io sulla collina ci voglio andare comunque. In realtà vedere qualche serpente non sarebbe male, per un biologo. Basta non pestargli la coda, giusto? Aja però non è affatto convinto, a forza di insistere riesco anche a capire il vero motivo. Sicuramente la collina è un covo di serpenti, ma è anche vietato campeggiare sulla collina. Se ci vado, si raccomanda Aja, bisogna che me ne vada domattina prima dell’alba. Altrimenti potrei rischiare che mi trovi la polizia. Loro stessi non sono autorizzati a stare là fuori durante la notte.
“Hai fame?” chiede la madre di Aja dalla stanza accanto. “Mah, beh, ho appena mangiato… Sono a posto.”
“No, dai, mangia qualcosa.” Il piatto ormai è già fatto. Kajamari mi passa una scodella d’acciaio con dentro un curry a base di legumi e pomodoro, con un aspetto che ricorda il ragù. Nel piattino successivo, c’è una sorta di pane, piatto e rotondo come una piadina, ma più leggero e meno croccante. È circa quindici centimetri di diametro, si prepara con poca spesa. Si chiama dosa (con la s di sasso), proprio quella dosa di cui mi hanno parlato Toto e Ghili. Pensavo che non l’avrei mai assaggiata, invece è venuta da me un paio d’ore dopo, sbucando dal nulla.
Ovviamente la si mangia con le mani, anzi ne basta una sola, la destra. Strappi un pezzetto e lo usi per fare la scarpetta nell’intingolo. Oppure lo si piega a paletta in modo da raccogliere più sugo, ma devo ancora fare pratica. Per fortuna il mio amico Ahmad, che è pakistano, mi ha già istruito sull’uso del chapati, il pane che si prepara da lui. Per la dosa si usa circa la stessa tecnica, piuttosto intuitiva. Mentre fisico la prima dosa, Ne arrivano altre due, calde fumanti, insieme a un piatto per Aja, che ha ancora un languorino.
Mentre facciamo onore ai dischetti di dosa, domando a Kajamari che lavoro fa. Lavora insieme al marito, sono entrambi muratori. Quanto prendono? Poco più di settantamila rupie al mese. Tradotto in euro, sarebbero circa 900 euro al mese, pensavo peggio. Aggiunge anche che prendono 2400 rupie al giorno. Qualcosa non quadra, così risultano circa 50000 al mese, oppure non tornano i conti. A meno che 2400 vada moltiplicato per trenta, che sono tutti i giorni che ci sono in un mese. Macché fine settimana, esiste già la notte per riposarsi. Come sono ingenuo!
Dato che ho introdotto l’argomento, vogliono sapere che lavoro facevo nel mio paese e con quale stipendio. L’economia non va proprio a gonfie vele in Italia, ma sicuramente possiamo fare invidia al Tamil Nadu. Dopo una breve pausa di calcolo, mi accorgo che il mio stipendio in Italia era circa un lakh di rupie al mese. Comodo da ricordare, almeno. “Però io lavoravo solo cinque giorni a settimana, perché in Italia abbiamo…” È ora di andare, Aja è già in partenza per accompagnarmi alla collina. In realtà non lo so perché un Italia i lavoratori hanno già dei diritti e qui invece sono messi così, nella parte di India in cui, teoricamente, si sta meglio.
Attraversiamo le case, in mezzo ai cagnacci di prima, fino al sentiero che conduce alla libertà. Aja mi consiglia di accendere la torcia, per guardare dove metto i piedi, ma la luce rivela parecchi frammenti di vetro sparsi sul sentiero, altro che serpenti. Forse la torcia servirebbe di più ad Aja, che è scalzo.
Ancora una volta si raccomanda che levi le tende domattina alle sei, così che non mi veda nessuno. Ci auguriamo la notte e mi avventuro su per la collina, che sale dolcemente. Le nuvole in cielo riflettono la luce di Madurai, abbastanza da lasciarmi distinguere vagamente la silouette degli alberi. A tratti devo alzare la torcia perché la verità è che non ci si vede proprio niente. Mi affido soprattutto alle immagini satellitari che ho sul telefono, per ricostruire la topografia davanti a me e cercare una macchia di alberi sufficientemente fitta. Il terreno arido e brullo non fornisce molta copertura, devo salire di più fino alla zona più boscosa.
Poco più tardi trovo un gruppetto di alberi, circondati da una macchia di cactus. C’è un passaggio, gli alberi distano appena quanto basta, direi che è perfetto.
Dato che sono quassù, non ci sono zanzare, ma piuttosto un leggero venticello che rinfresca dalla sudata fatta per salire. Una meraviglia, al diavolo gli ostelli.

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