Come un topo in trappola

Lezione di ieri: Passeggiando sotto i cocchi, è bene guardare all’insù.
Domenica 08/05/2022 Thodupuzha (Kerala, India)
È già giorno fatto, ma mi devo ancora svegliare del tutto quando arriva un amico di Meeraj, che ieri mi aveva anticipato che forse sarebbe venuto a portarmi il caffè. Mi sembrava un’assurdità, invece eccolo qui, a darmi il buongiorno. Si chiama Jeebin uscito a camminare con un termos di caffè apposta per me. Facciamo due chiacchiere e mi lascia il caffè dicendo di restituire tutto a Meeraj quando arriverà. Riparte di corsa, per finire il giro della collina.
Poco dopo arriva la macchina di Meeraj  mentre io sono ancora intento a smontare il letto. Ha portato con sé la sorella e le tre nipoti Jennifer, Isa Maria e Emma Margareth, tre bambine carinissime. Così carine che quando trovo sul prato un diplopode enorme (un millepiedi), lo uso come scusa per fare un video e inquadrare le nipoti sullo sfondo. È veramente grosso questo millepiedi nero e lucido, a cilindro e con una miriade di zampine. Non a caso, è una specie di Miriapode.
Torniamo a casa, dove ci aspetta la colazione, abbondante e varia come la cena di ieri. Finito di mangiare, è ora di rifare i bagagli e partire, dopo un grande caloroso saluto a tutta questa bella famiglia. Mi raccomando con Meeraj di portare le mie scuse a quell’uomo che ieri mi ha invitato a casa propria, quello che lavorava nella villa. N on ho potuto fare visita a tutti in appena venti ore di permanenza.
Mi accompagnano fino in centro a Thodupuzha all’inizio della strada che porta a Eratuppetta (che si legge Iratupèta). La toponomastica del Kerala è tremenda, è piena di nomi lunghissimi da scrivere.
Il primo passaggio non si fa attendere, è una famiglia diretta a Muttam. Muttam dista nove chilometri da Thodupuzha, per la cronaca. Al volante c’è Regin Andrews, con accanto la moglie Dina (o forse Deena) e io sono seduto insieme ai due figli Soli e Medhikuti. Regin Andrews lavora in banca, ma oggi che è domenica i quattro sono diretti a casa nel proprio paese.
Poco più tardi, rieccomi per strada, a piegare il cartone Muttam – Eratuppetta. In Turchia ho preso l’abitudine di scrivere due destinazioni, una ragionevolmente distante e l’altra talmente vicina da poterci arrivare anche a piedi, con un po’ di impegno. Ora la prima delle due era Muttam, e mi rifiuto di scrivere una delle parolacce impronunciabili con cui i kerali chiamano i prossimi due paesi. Spero proprio di andare direttamente a Eratuppetta, in realtà, ma ovviamente sono speranze vane, questo è il Kerala. Tra l’altro mi tocca scrivere tutto in caratteri latini, perché qui si usa un alfabeto completamente diverso dall’hindi, che non saprei leggere, ma mi ricordo come si scrive. In realtà qui in Kerala ben pochi parlano hindi, perché si parla correntemente il Malayalam. A scuola la scelta della seconda lingua è facoltativa tra inglese e hindi, perciò la maggioranza degli studenti sceglie l’inglese, che è utile per trovare lavoro all’estero.
Mentre sto studiando la strada davanti a me, mi si avvicina un uomo, chiedendo in inglese “Can I help you?” Non è usuale vedere qualcuno che fa l’autostop, anche se potenzialmente potrebbero averlo visto fare nei fiim. Non so neanche bene che cosa fare con la mano, la mano sinistra, adesso che il senso di marcia è cambiato e anche la cultura. Continuo con il pollice in su, finché una macchina accosta, dicento che va a paparamamaramatom. “Dove?!?”
Qualcosa-tom, salgo lo stesso e poi capirò, c’è troppo rumore per strada. Sono a bordo con due amici, poco più grandi di me. Uno si chiama Vishnu e l’altro Endu o Indu, nei primi giorni è sempre un dramma indovinare come si scrivono i nomi nei paesi nuovi. Mi domandano chi sono e da dove vengo, ma soprattutto dove vado. A quanto pare loro prenderanno una deviazione a Melukavumattom. Ora capisco, per pronunciarlo correttamente non bisogna prendere le consonanti troppo sul serio, ma lasciarle scivolare sulla lingua. “Sei sposato? Perché no?”
“In Italia è diverso, a che età vi sposate qui? Ecco dove abito io aspettiamo cinque anni in più, mediamente.” Mentre racconto delle mie ultime tappe e peripezie, seguiamo una strada a tornanti, stretta tra gli alberi enormi di questa regione. Il panorama è già cambiato parecchio rispetto a ieri mattina, con i bufali al pascolo nei campi allagati. Scavalcata la collina, eccoci arrivati. Altri nove chilometri sono alle spalle.
Adesso Eratuppetta (Iratupeta)? No, certo che no, prima c’è Kalatthukadavu e molte altre piccole svolte interposte.
Infatti, il mio prossimo trasporto sta andando in un villaggio che non capisco, a metà strada per Kalatthucomesichiama. Con me la piccola utilitaria è davvero stipata, sono seduto insieme a Ilfar, Arif, Madih e Bhashia. Possono darmi un passaggio fino in paese. Sono quattro amici, musulmani, un po’ più giovani di me. “No, io non sono sposato”. Il cielo si è annuvolato, come ieri pomeriggio. Chiedo se pioverà, ma ottengo solo una risposta vaga, come ieri pomeriggio. Io temo l’arrivo del monsone, previsto in media tra due settimane, ma la verità è che è imprevedibile. Come mi ha spiegato ieri Meeraj, questo è il periodo più caldo dell’anno. Quando arriva il monsone piove tutti i giorni, a volte tutto il giorno, per una settimana. Poi il tempo migliora e il caldo umido si acuisce fino alla settimana di pioggia successiva. Nelle ultime settimane che precedono la pioggia il cielo tende ad annuvolarsi ogni giorno, perciò non fornisce molte informazioni sulle previsioni meteorologiche.
Quando scendo dalla macchina, mi viene incontro un giovane kerali, che ha riconosciuto un collega. Anche lui è un viaggiatore, talvolta fa l’autostop e ha un canale Youtube in cui condivide le proprie esplorazioni del Kèrala. Si chiama Kiran Kamal e il suo canale è AK Exploringz.

Ci scambiamo i contatti e proseguo nella mia odissea verso Kumily, al confine con lo stato del Tamil Nadu.
È un certo Aldin il fortunato autista che ha l’onore di portarmi fino all’agognata Eratuppetta. Mi consiglia di tagliare direttamente per Vellikulam, mentre io già pensavo di scendere fino a Kanjirappalli (cagnirapali), in cerca dell’autostrada di questo stato di stradine. La verità è che qui le autostrade non ci sono, non siamo nel centro dell’India.
Superate diverse moschee, scendo davanti alla chiesa di St George, tutta bianca e gremita di fedeli. Aldin si è raccomandato di osservare la nicchia di pietra di fronte al sagrato. Dentro c’è una madonnina incorniciata da una pianta rampicante, cresciuta spontaneamente all’interno. Ebbene, le foglie di questa pianta non sono mai cresciute davanti al viso di Maria, per non coprirlo.
Non vado a messa da febbraio, così lascio le scarpe sulla scalinata e mi avvicino al portone, in piedi in ultima fila. Dalla soglia della chiesa non si vede un granché, ma la varietà dei vestiti è già sufficientemente interessante. Le donne sono vestite con il sari, malgrado la calura impietosa e l’assenza di ventilatori in questa parte della chiesa. Improvvisamente la preghiera finisce e sento una musica techno, come se da qualche parte qui intorno ci fosse una festa di compleanno con i balli di gruppo. Solo che viene da dentro la chiesa, sono i canti gregoriani in stile kerali. Li registro perché non è giusto che muoia dal ridere solo io, devo farli ascoltare anche a casa.
Finita la messa, ciascuno rientra nelle proprie calzature e io faccio un giretto nel cortile esterno, dove ci sono alcuni rubinetti pubblici per rifornirsi di acqua potabile. Davanti alla chiesa c’è un palo altissimo, dorato e con in cima una croce, mentre accanto si trova un piccolo altare. Sull’altare c’è una sorta di candelabro in una vasca di sabbia, per accendere candele e pregare, ma all’aperto. A lato della chiesa invece, a parte le mille decorazioni colorate appese al portico, c’è una grande scultura di vetroresina che sembra una grotta, ma dipinta di rosso all’interno. Dentro al fuoco della grotta ci sono le scolpiti i dannati, mentre sopra la grotta c’è il paradiso, con tante nuvole bianche e i beati in cima. Tutto coloratissimo, perché siamo in India, e anche incisivo nel portare il messaggio. Mentre scatto una foto, un paio di ragazzi si avvicinano per chiedermi di scattare una foto con loro.
Terminato il mio dovere, riprendo la marcia verso la periferia di Eratuppetta, che fortunatamente non è un paese troppo grande.
Sono piacevolmente stupito quando si ferma a prendermi una jeep di una certa età, probabilmente d’epoca, guidata da Ashish (che si legge Asìs), che ha qualche anno più di me.
Nel baccano del motore e del vento nell’abitacolo, riesco a intendere che questa macchina è un acquisto recente e lui la sta sistemando. È bellissimo, sia la macchina sia la natura circostante, scatto varie foto in cui si veda bene il cofano con la stella.
Le nostre strade si separano a Vellikulam, aspetto altri dieci minuti e salgo in macchina con un Rajesh (Si pronuncia Ragìsh) e suo figlio, che avrà piu o meno sei anni. Rajesh si scusa perché non sa granché di italiano, tutto quello che si ricorda è “Mamma mia” e conosce addirittura Bella ciao. La fama dei partigiani è arrivata fino in Kerala, incredibile.
Rajesh è ingegnere e lavora per una compagnia statale. Suo figlio Roshan secondo me si sta annoiando a morte, ma per fortuna lui e il papà sono in gita. Sono diretti a Parunthumpara, una cima panoramica tra le colline di Vandiperiyar. Mi propongono di seguirli e dopo un po’ di indecisione accetto l’offerta.
Nonostante sia bassa stagione, questo punto turistico è gremito di indiani, ci sono addirittura dei pullman organizzati per venire fin quassù. Sono sicuro che il concetto di gremito sia relativo alla mia origine europea, per loro forse il luogo sembra deserto. Roshan non è tanto in vena di camminare, così chiedo a Rajesh di aspettarmi, così da raggiungere quella che mi pare essere la vera cima dell’aquila. In lingua malayalam, infatti, parunth significa aquila e para vuol dire roccia. Dopo la vita sedentaria in Oman mi fa bene scendere e risalire la collina con lo zaino in spalla. Perché ovviamente lo zaino è con me, non l’ho certo lasciato in macchina. Dalla cima dell’aquila si vede una vallata coperta di foresta, questa volta sono sicuro che sia foresta primaria, nessuno si azzarderebbe a disboscare su una tale pendenza.
Finita la breve visita, Rajesh accosta di nuovo per farmi vedere da vicino le piante di tè che si coltivano su queste colline, dove il clima è più fresco e umido. Mentre passeggio tra i cespuglietti verdi, assaggio una foglia. Caspita, sa proprio di tè.
Anche la strada principale per Kumily attraversa le piantagioni di tè, così famose che Rajesh si sente in dovere di fare una sosta al ristorante, per bere un tè e offrirmi uno spuntino. Lo spuntino diventa più sostanzioso perché Roshan non va matto per questi peperoni verdi farciti e fritti, tipo friggitelli.
Ripartiamo sotto alle nubi sempre più basse, con una leggera piovvigine. Passa presto, mentre Rajesh supera Vandiperiyar senza battere ciglio. Mi attento a chiedere solo dieci chilometri dopo, se ha deciso di portarmi fino a Kumily e poi tornare indietro. Eh sì, il buon Rajesh ha deciso di portarmi in gita turistica, a mangiare fuori e ha pensato di concludere facendo trenta chilometri extra, per consegnarmi a Kumily. (Tra l’altro, Rajesh aveva in macchina una gopro, con la quale ha ripreso dieci minuti di viaggio. Il video si trova qui: https://www.youtube.com/watch?v=7yXGnfWZ5bk
Per me è impressionante sentire il mio accento inglese dopo la Turchia, la Georgia, l’Azerbaijan e l’Iran. È completamente diverso da adesso, perché cambia in continuazione.)
Wow, sono arrivato e non è ancora buio. Non resta molto tempo, perciò mi sbrigo a fare la spesa e raggiungere il parco. Dopo i manicaretti che ha preparato la nonna ieri e oggi, mi è venuta una voglia incontenibile di cucinare. Compro un chilo di riso integrale, prodotto qui, lenticchie e spezie per prepare un curry e varie verdure. Sono da solo, quindi bisogna che compri una piccola carota, una piccola patata, una cipollina e una minuscola melanzana verde. “Riesci a immaginare quanto possano costare?”, chiedo alla cassiera.
Me ne vado con il mio bottino, al quale aggiungo una grossa noce di cocco scelta dalla pila del venditore di strada e anche due manghi. Sono mesi e mesi che attendo con pazienza di arrivare nella terra dei manghi e dei cocchi, è ora di festeggiare.
Mentre la luce cala, faccio rotta verso l’ingresso del parco. Ho come il sospetto che chiuda di notte, essendo una riserva per le tigri. Lungo la via trovo una chiesa, dove è in corso una celebrazione. La celebrazione sembra una festa, con la musica più indianeggiante che si possa immaginare. La facciata e il campanile sono coperti di luci colorate che cambiano colore come le insegne dei negozi a Natale e i presenti hanno riempito la chiesa e il piccolocortile antistante, così mi fermo nel capannello in piedi fuori dal cancello. Non aspetto che finisca la funzione, volevo solo immergermi nei colori e nei suoni dell’India, così allegri e vividi.
Proseguo a passi lunghi, lungo la stradina che porta al parco quando, ohibò, una scimmia! Due scimmie! Ci sono le scimmieee! Anche loro dovevano entrare in scena sul palcoscenico del viaggio, prima o poi. Domani le guarderò meglio, ormai è buio.
La via non è altro che un susseguirsi di ostelli, alberghi, pensioni e altri alberghi, che sbarrano la strada a destra e a sinistra. Essendo probabilmente l’unico europeo in circolazione, gli albergatori che mi vedono passare mi domandano dove vado e se ho già prenotato una camera. “Vado da quella parte”, rispondo io, “Sì, ho già un alloggio.” È ovvio che vado da quella parte, ma qualsiasi risposta sensata scatenerebbe altre domande. L’alloggio ovviamente è sulla mia schiena, il mio zaino è come un albergo portatile.
Scartando abilmente gli albergatori, arrivo in porta proprio un attimo prima che chiuda, ma va a finire come sospettavo. Il parco ha un cancello, che alle sei viene chiuso e riapre la mattina dopo. Dannazione! Nessuno può stare dentro di notte. Anche le guardie forestali mi chiedono se ho già prenotato un albergo. “Non l’ho ancora prenotato, ma sono sicuro che ci sia pieno di alberghi pronti a ospitarmi.” Così anche le guardie sono tranquille. Torno indietro mettendo il turbo, così da attrarre meno seccatori. A chi insiste, specifico che sto andando verso il mio alloggio, che è vero. Nel frattempo mi lancio occhiate a destra e a sinistra, nella penombra, in cerca di un passaggio, un vicolo tra le case per raggiungere gli alberi sul retro. Niente, sono in trappola, in una dannata trappola come un topo, tra un muro e gli alberghi. Resta solo una speranza.
Poco fa ho notato una porzione di muro crollata, con una ruspa parcheggiata davanti. Non sembrava un bel posto, ma è meglio di niente.
Superare il muro in effetti è un gioco da ragazzi, perché è ridotto ad un cumulo di macerie. La torcia, stretta nel mio pugno, produce appena una lama di luce, così da vedere dove metto i piedi. Sto attraversando un prato incolto, coperto dalle chiome dei bambù, che crescono in fitti gruppi. Ci sono cartacce sparse tra l’erba, dove volteggiano le lucciole. Mi trovo nella zona di boscaglia dietro agli ostelli, attraversata da rugagnoli che drenano le acque reflue, mi pare. Almeno, la densità di cartacce e l’odore danno proprio questa idea.
Saltando oltre questo schifo, esploro i dintorni, a cento metri dal muro, per trovare due bambù adatti ad appendere l’amaca. Non sono molto convinto da questa sistemazione così precaria, mi spingo ad esplorare oltre il canneto e lo stagno. Nel farlo metto in fuga due bufali. Aggirando con circospezione a zona fangosa, ecco finalmente degli alberi solidi. Appendo l’amaca, raccolgo un po’ di ramaglia e metto a cuocere il riso, in questa prima notte di campeggio indiano. Davanti a me vedo tra le foglie qualche lucina degli alberghi, e anche alle mie spalle, a cento metri, ci sono delle luci. Sono sicuramente a Nord del cancello del parco, dove passa il confine. Praticamente questo è il giardino comune degli alberghi, io ho rischiato di fare la fine del topo, ma ho trovato il mio buco nel muro.
Cotto il riso, preparo la verdura a cubetti, con abbondanza di spezie. Lo mangio con il cucchiaio? No, siamo in India, si mangia con le mani. Avendo spezzato rametti per un’ora, i primi bocconi sanno un po’ di foresta, ma ben presto diventa buonissimo, questo primo piatto indiano e vegetariano. Per concludere nel migliore dei modi, pelo un bel mango, dolce e succoso. Il vecchio me avrebbe conservato le bucce per non lasciare la minima traccia, ma troppi iraniani hanno messo a dura prova la mia disciplina, così le getto via e basta.
Avendo spento il fuoco, le zanzare stanno tornando alla carica, così mi nascondo in amaca, dove al massimo mi possono pungere sulle braccia, attraverso la tela di nylon. Si vedono tante stelle, ma la lunga giornata prende il sopravvento.

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