Aotearoa (ho cambiato l’altro titolo)

Lezione di ieri: Se puoi permetterti di dare una mano, allora aiuta.
24/03/2023 Canberra (Australia)
L’inverno australe si sente eccome, qui alla Collina del geco (Gecko hill). Si preannuncia una bella giornata, ma il sole arranca, cercando di scavalcare la foschia all’orizzonte. Quando la luce mi sembra sufficiente a scaldarmi, abbandono il mio precario nascondiglio per prepararmi alla resa dei conti con i famigerati controlli di biosicurezza neozelandesi.
Uno dei monumenti di questo parco dedicato alla RAAF poggia su un grande plinto di cemento, che sarà un ottimo banco di lavoro. Un pezzetto alla volta svuoto tutto lo zaino, spargendo il contenuto su tutta la superficie disponibile. È incredibile quanti oggetti si possano stipare in soli 60 litri di spazio. Dopo un’ora e un quarto, ho ispezionato ogni singolo vestito, cordino, tasca e sottotasca, svuotando le intercapedini dalla polvere di bosco che si è sedimentata nel corso dei mesi. C’è ancora un pezzetto di quelle stramaledette palme arpionatrici di Halmahera, l’ultimo campione per cercare di identificare la specie. Ora conosco il nemico. Sono le palme del rattan, che ha un nome amichevole, ma nasconde una natura demoniaca, come già sospettavo. Rattan è un termine generico per indicare alcune centinaia di specie di palme. Quelle che intendo io fanno parte della famiglia delle Calamoideae e la specie Daemonorops jenkinsiana può dare un’idea dell’inferno di uncini che ho tentato di attraversare nelle Molucche settentrionali. Ora posso dormire sonni più tranquilli.
La ricostruzione dello zaino richiede un’altra ora e mezza, finisco l’ultima scatola di fagioli e mi apposto allo svincolo per Sydney, due chilometri più in là. Non serve attendere a lungo, per mia fortuna Adrian ha deciso di tornare indietro apposta per venire a prendermi.  Mi siedo accanto ad un lungo bastone ricoperto di nastro telato, come quelli che usiamo in palestra a Reggio per praticare ju-jitsu. Tuttavia Adrian non pratica arti marziali, lo usa per respingere gli assalti delle gazze, quando va a passeggiare. Dice che a volte le gazze lo beccano e gli tirano i capelli, forse per proteggere il nido. Devono essere tremende per richiedere un randelo del genere, sono davvero impressionato. Adrian è un professore di mezza età, non è sposato e si è preso un giorno di malattia per andare a Sydney ad una partita di rugby, insieme al fratello.
Mi chiede come ho fatto ad arrivare fino lì ieri, così gli racconto della generosita di Harish e dei sikh in generale. Forse li ho elogiati con troppo trasporto, Adrian ha deciso di fare una deviazione e di accompagnarmi fino all’aeroporto di Sydney. Sono commosso da tutta la bontà ricevuta negli ultimi due giorni.
Proprio come in Italia, la vita dell’insegnante qui non è affatto semplice. Con solo sette giorni all’anno per stare a casa in malattia, reggere la pressione del lavoro è molto difficile per tutti i docenti della scuola. La parte più pesante è sbrigare tutto il carteggio necessario a certificare che il proprio operato sia conforme ai numerosi organi che decidono il programma didattico. La qualità di questo, la qualità di quello, praticamente spende più energie per mantenere il posto di lavoro rispetto all’insegnamento vero e proprio. È un insegnante di arte, perché la musica non è molto apprezzata nelle scuole superiori. Lui è un bravo trombettista, così insegna anche in una seconda organizzazione, dove ha una classe di ottoni. Con una mano suona la tromba e con l’altra dirige l’orchestra. È felice di avere scelto la tromba invece del clarinetto, così ha una mano libera.
Da piccolo nel paese in cui abitava la sua famiglia, ha iniziato a seguire dei corsi insieme al fratello, così ora entrambi sono a loro volta maestri. Suo fratello insegna ad un conservatorio, dove gli allievi sono ben più abili.
Nel frattempo passiamo accanto al lago George, che è pieno d’acqua. È uno specchio d’acqua di grandi dimensioni, ma tende a prosciugarsi in un baleno perché ha la conformazione topografica di una pozzanghera. Duecento chilometri quadrati per un metro e mezzo di profondità. Da queste parti è noto che il lago può scomparire in un giorno e quando questo accade, un altro lago si riempie in Nuova Zelanda. La sorte dei due laghi è collegata, perciò quando il lago in Nuova Zelanda si svuota, il lago George si riempie.
Parliamo anche a lungo degli anni della pandemia, che ha visto fiorire una varietà di teorie per spiegarla. Sono sicuro che ne avete sentite raccontare abbastanza, ormai ognuno ha la propria. Sappiate che Adrian mi ha avvertito che tra un paio d’anni si aspetta una nuova pandemia. Se ha ragione, sarà una pandemia di un enterovirus simile alla polio, che colpisce soprattutto i bambini. In tal caso, sappiate che è tutta una montatura già prevedibile da anni.
Qui arriva la parte migliore di questa meravigliosa conclusione del mio vagabondaggio australiano. Mi è saltato in mente di chiedere ad Adrian che cos’è che gli piace di più dell’Australia. Ho avuto prova che gli Australiani sottovalutano la qualità delle proprie strade e delle condizioni di vita, non si rendono conto di quanto spazio hanno a disposizione e di quanto è bello il cielo notturno. La risposta mi spiazza e mi incanta. “Quello che preferisco”, inizia Adrian, “è quel senso di antichità che pervade questa terra, che è particolarmente evidente verso l’ora del tramonto.” Quando passeggia nei boschi di questa terra, ne percepisce la storia antichissima, geologica e umana. È lo stesso concetto della tradizione degli aborigeni, forse, che attribuivano grande importanza alle migliaia di generazioni di uomini che hanno calcato queste colline, smussate e infine spianate dalla pioggia e dal vento. Di tutti gli aspetti apprezzabili dell’Australia, questo mi era proprio sfuggito, non ci avrei mai pensato. Eppure è vero, l’ho percepito anch’io attraversando i boschi ultracentenari di eucalipti (Lophostemon confertus), tra Broken Hill e Mildura. Dall’alba dei tempi quegli alberi hanno visto trascorrere inondazioni e siccità tremende, più giorni e più notti stellate di quante ne vedano tre generazioni di uomini. Ciò di cui parla Adrian è ancora più ampio e più affascinante.
Poco prima di arrivare a Sydney ci fermiamo a pranzare in un forno famoso che produce pie inglesi, i tortini salati. Paga lui, rimontiamo a bordo e ci inoltriamo nella capitale. L’autostrada non lascia intravedere granché della città così vengo catapultato direttamente al terminal dell’aeroporto, davanti alla porta di ingresso. Grazie Adrian, buona vittoria stasera!
Questa è stata l’Australia, 4300 chilometri in due settimane, dalle mangrovie all’outback al freddo di Canberra. Ho speso 45 dollari ma Kevin me ha regalati 50 e ora resta solo da passare la frontiera. È stato un viaggio di esplorazione, non pretendevo di più in così poco tempo, anzi mi aspettavo molto meno di così. Spettacolare.
Nelle cinque ore che mi restano prima della partenza posso fare la doccia nel bagno del piano terra, lavare le mie povere calze rattoppate e ancora zuppe da ieri, incollare la suola della scarpa sinistra e inviare qualche cartella di foto a casa, sfruttando il wifi incredibile di questo aeroporto. Consegno lo zaino, 19,2 chili più un litro d’acqua, e per curiosità peso anche il bagaglio a mano, totale 22,5 chili. Mancano la giacca e un chilo di oggetti nel marsupio, telefono e Gopro. 24 chili li raggiungo facilissimamente.
Al piano di sopra spendo gli ultimi dollari cartacei avanzati, poi aspetto che lo schermo annunci l’apertura del gate.
Quando apre il gate passo la frontiera semplicemente appoggiando il passaporto sul lettore ottico, supero il controllo ai raggi X e gli schermi segnano che il gate sta già chiudendo. Imparerò mai come si prende un aereo? No. Arrivo di corsa insieme ad un altro passeggero in ritardo, una viaggiatrice neozelandese. Si chiama Live. In attesa di salire sull’aereo, inizia a darmi due dritte su come cercare lavoro una volta atterrato.
Saliamo a bordo, ma l’aereo in realtà non è ancora pronto, o forse c’è traffico sulla pista di decollo. Fatto sta che dopo un’ora siamo ancora parcheggiati di fronte al gate.
Forza, devo andare in Nuova Zelanda!

25/03/2023 Sydney (Australia)
È trascorso un anno e mezzo, quell’anno e mezzo che sarebbe bastato, secondo i calcoli, per completare tutto il giro del mondo. Invece sono ancora a metà, anche se la maggior parte di ciò che resta è oceano. La verità è che, per compiere un giro del mondo via terra in soli diciotto mesi, bisogna andare andare andare.
Sono strabiliato da questa prima metà del percorso, che si è svolto al ritmo giusto, ma ben più lentamente delle mie speranze iniziali. L’Italia di per sé non mi manca troppo, ma tutti quanti i cari, i parenti e gli amici si che mi mancano, mi mancano dannatamente da tanti tanti mesi. Mi mancavate tanto già quando ero in Turchia, arrostendo il pollo sulle colline di Efes e sorseggiando airan. Nel frattempo è passato un altro capodanno, e io non ero neanche in vista dell’Oceania. Sono in ritardo di tre o sei mesi rispetto al previsto, ma dovrei anche recuperare un mese o due rispetto a quello che immaginavo.
Ora mi pare che vada molto meglio, avendo deciso un paio di mesi fa che non attraverserò l’Africa, al massimo uno spigolino a Nordovest, niente di più. Era decisamente troppo, lo sospettavo già da quando l’ho ponderata per la prima volta su un mappamondo. È enorme l’Africa, smisurata, talmente grossa e particolareggiata che servirebbe un anno solo per attraversarla in linea retta.
Cercando di riassumere questo insieme di pensieri, potrei fare il punto della situazione a diciotto mesi di distanza dalla partenza. I soldi sono agli sgoccioli, nonostante i generosi regali che ho ricevuto e l’ingente prestito che ho ricevuto per acquistare il telefono nuovo a Ternate. Non so ancora quanto ho speso in questo anno e mezzo. Ora è il momento di rallentare, rimettersi in sesto e ripartire tra qualche mese, verso casa. Probabilmente tre mesi dovrebbero bastare per raggranellare il necessario per il viaggio di ritorno, che consta di due oceani, il continente sudamericano e un pezzetto del Vecchio mondo. Dal Brasile potrei raggiungere il Senegal, le Canarie o direttamente la penisola iberica, vedremo come andrà. Comunque sia, di certo non tornerò quest’anno, ma prima del mio compleanno dell’anno prossimo, che al momento mi pare una data lontanissima. Non credo di poter ripartire prima dell’inizio di luglio, ma molto dipende dalle condizioni meteo marine dell’oceano Pacifico. Non ho la minima idea di come funzioni.
Per il momento penso a rimettere insieme i pezzi, recuperare la scrittura perduta e dare un senso a queste braccia, che un senso non ce l’hanno più.
Attendo trepidante l’arrivo del papà, la mamma e la Sofia, previsto tra trentacinque giorni. Il loro arrivo, qui dall’altra parte del mondo, mi pare surreale quanto il mio imminente atterraggio ad Aotearoa, l’isola della lunga nuvola bianca. La missione numero 3 è compiuta.
Siamo in Nuova Zelanda gente, allacciate le cinture, perché stiamo volando a testa in giù.

1 commento su “Aotearoa (ho cambiato l’altro titolo)”

  1. Tesoro meraviglioso manchi tanto a tutti qui a casa, ma stai facendo un’impresa così unica che non devi assolutamente mollare!!! Mamma papà e Sofy ti daranno sicuramente la carica per continuare la tua avventura!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *