Emeline

25/03/2023 Auckland (Nuova Zelanda)
Atterriamo all’una di notte, con in vista soltanto qualche sparuta lucina proveniente dai paesi che circondano la baia di Manukau. Io fisso il buio attraverso l’oblò, con gli occhi sgranati e un sorriso fin sopra le orecchie. Sto sognando?
Ebbene no, tocchiamo la terra dell’isola del Nord e piano piano rulliamo fino all’edificio dell’aeroporto. Fatemi uscire!
L’aeroporto ci accoglie con un corridoio incorniciato da sculture di legno con intarsi di conchiglie iridescenti, ovviamente in stile maori. Al momento la missione è entrare in Nuova Zelanda, perché siamo tecnicamente ancora su suolo internazionale.
Come già in Australia, il passaggio della dogana è solo una formalità, talmente moderno che non devo neanche presentare il visto, un timbro e via. Adesso viene la parte divertente, il controllo di biosicurezza. Recupero il mio caro Hans insalamato e intercetto Live per chiederle qualche informazione utile sui siti internet per trovare lavoro in Nuova Zelanda e per trovare una sim. Lei dice che qui i piani tariffari costano una fortuna, non come in Europa. Lei usa la compagnia Skinny, che è quella più economica, e paga quaranta dollari al mese. “Come quaranta dollari al mese?” Dovrò inventare una strategia, non voglio finire come in Turchia, anche perché qui ci resterò per diversi mesi.
La fila per passare i controlli di biosicurezza è enorme, mi metto in fila e faccio due chiacchiere con Cecilia (si dice Sesilia), viaggiatrice francese. È appena tornata dal Vietnam ed è la quarta volta che torna in Nuova Zelanda. La fila scorre in un attimo e mi trovo a dichiarare tutta la mia mercanzia al doganiere, mostrando il questionario cartaceo che ho compilato in aereo.
Le scarpe sono pulite, nessun problema. “Hai del materiale da campeggio? Hai una tenda?”
“Sì campeggio spesso, ma in amaca?”
“Ah, quindi niente tenda? Va bene.”
“Che cosa hai nello zaino, da dichiarare?
“Porridge d’avena, conchiglie lavate e pulite…”
“Conchiglie di mare o di lago?”
“Di lago.” Segna le conchiglie sul questionario.
“Che altro?”
“Due penne, tre gusci di cocco, un pezzo di tavola di legno, una sezione di tronco…” Segna anche il legno e mi spedisce al bancone dove gli operatori controllano gli oggetti a rischio.
Un’occhiata molto rapida è sufficiente a completare tutte le formalità, così me la squaglio insieme alla lana di yak, il pelo di canguro e le penne di paradisea, che mi davano tanti pensieri. A quanto pare le penne possono entrare.
Sono in Nuova Zelanda, wow!
È notte fonda, o mattina come si dice qua, e penso che starò qui a ricaricare il telefono e a sfruttare il wifi, per organizzare i miei prossimi passi fuori da qui. C’è solo una presa in un angolo dell’atrio, così appoggio i bagagli su un carrello dell’aeroporto e mi siedo in punta al carrello, per non disturbare il canuto viaggiatore sdraiato qui accanto, che dorme sulle sedie. Ha l’aria di un vecchio lupo di mare, da come dorme beato nel proprio sacco a pelo, con la testa sullo zaino da viaggio.
Un’ora dopo, mi sento toccare sulla spalla. È una donna, che mi consiglia di spostarmi al piano di sopra, dove ci sono sedie e prese di corrente a volontà. Grazie!
Mi trasferisco subito, ritrovando Cecilia che chiacchiera insieme a quella che mi ha chiamato un attimo fa, di nome Emeline. Prima della pandemia avevano richiesto entrambe il visto lavorativo per la Nuova Zelanda, ma non lo hanno usato fino ad un anno fa, quando il paese ha riaperto. Si sono conosciute qui ad Auckland.
Sono state in Vietnam e in Thailandia insieme, più o meno, incontrandosi e separandosi di tanto in tanto. Adesso ciò che mi preme è capire come trovare lavoro, quindi per prima cosa mi istruiscono su questo e completo un paio di formalità necessarie ad avere le carte in regola per l’assunzione. Grazie alla mia carta Wise, non dovrò neanche aprire un conto in banca. Mentre sono indaffarato, Emeline decide di mettermi in testa le proprie cuffie con la musica. Nelle cuffie ci sono gli Hell South e altri autori che non conosco, comunque ottimi. È rarissimo che ascolti la misica, in questo viaggio, perciò è un momento speciale.
Cecilia si sdraia a sonnecchiare, così continuo le chiacchiere con Émeline, che è di origine belga. Ha trentatre anni, due più di Cecilia e ha due sorelle che vivono in Francia. Entrambe hanno figli e famiglia, una vita normale, mentre lei ha lavorato come shop manager per sette anni, fino a rendersi conto che quel lavoro non le piaceva abbastanza per continuare oltre e ha lasciato la Francia per venire qui. Se già la propria famiglia non la aiuta a sentirsi a proprio agio con questa situazione di stallo, alcuni giovani che ha incontrato in ostello hanno infierito ulteriormente. Mi racconta che le è già capitato diverse volte di sentirsi dire che alla sua età dovrebbe essersi sistemata, invece di girare per ostelli. Lei invece al momento sta bene da sola e viaggiare così le sta facendo bene. Il fatto che anche io le abbia appena parlato dei miei sogni successivi a questo viaggio sicuramente non aiuta, ma sono prontissimo a rimediare. Non so neanche come si siano potuti permettere di pronunciare sentenze del genere. Emeline dice che incontra moltissimi viaggiatori giovani, alla prima esperienza. Forse è questo il motivo, anche se essere giovani non vuol dire essere cafoni. Dal canto mio, sono prontissimo a raccontare di Joe, settantenne celibe nell’ostello a Sarajevo, Miller, il brasiliano di Skopje che viaggia da sette anni, Paul, il kiwi dai baffi blu che ha una compagna qui in Nuova Zelanda, ma viaggia da solo. O Sheryl, la mia compagna di università che ha iniziato l’università a trent’anni anni, perché prima ha viaggiato per undici anni. Ormai ho storie a pacchi da raccontare, inizio a rendermene conto, storie che rendono normali anche le peggiori assurdità. Continuiamo a parlare, in attesa dell’alba imminente.
Attraverso i vetri del salone, le nuvole a strati sembrano smaltate di arancio e di giallo, alle sette di mattina.
Cecilia si raddrizza e usciamo a calpestare il vero suolo di Auckland, diretti in centro. Capita di rado che incontri dei viaggiatori, ancor più raramente sono viaggiatrici, perciò questa volta un autobus lo posso prendere. Emeline si offre addirittura di pagarmi il biglietto, se supera il mio budget giornaliero. Il mio budget è “il meno possibile”, ma anche se il viaggio costa dieci euro per fare venti chilometri, oggi è festa, poche balle. Siamo in Nuova Zelanda, Hurrà!
Il biglietto si paga con la carta, ma quando viene il mio turno il pos fa cilecca. Un volta, due volte e anche il passeggero dopo di me non riesce a pagare. L’autista alza gli occhi al cielo e ci fa accomodare a bordo. Siamo solo in quindici su questo autobus privato, ecco perché il biglietto è così costoso.
Passiamo attraverso case sempre più alte e strane, ma sono semplicemente edifici moderni, nuovi, tipo quelli che c’erano a Bangkok quando ci andai. È passata una vita. Mi chino a raccogliere una moneta sotto al sedile. Cinquanta centesimi di dollaro, nuovi di zecca, con l’effige della regina e davanti la nave Endeavour, la nave di Cook, 1769. Stupendo. Passo il resto del viaggio a chiedermi come sia possibile che io, invece di spendere diciassette dollari, sia già in attivo di cinquanta centesimi. Scendiamo, mettiamo il naso fuori dal parcheggio e siamo esattamente sotto alla torre di Auckland, il centro commerciale da cui si può fare bungee jumping. “Ma è così bassa?”, esclamo io.
“Ma come bassa? Quanto alta la volevi?” ribattono Emeline e Cecilia. “Io mi aspettavo qualcosa come la torre radio di Istanbul, o la torre Eiffel, trecento metri abbondanti. Questa è bassa, per così dire.”
Per prima cosa si dirigono in ostello a scaricare lo zaino. Lo lascio anch’io alla reception e approfitto del wifi per scaricare un dizionario di reo maori (lingua maori). Questo ostello economico, che costa 45 dollari per notte, mi ha appena informato che anche qui campeggerò parecchio, diciamo sempre. La buona notizia è che le dannate leggi australiane sono rimaste di là dal mare di Tasman, qui in Nuova Zelanda ci sono le leggi dei kiwi. Si può campeggiare nelle aree attrezzate, come in Australia, ma anche nelle riserve naturali e in generale nelle aree verdi su suolo pubblico. Sono in terra di amici.
Cecilia decide di fare una doccia e collassare a letto, mentre Emeline per fortuna ha ancora energie da vendere ed è pronta a fare quattro passi nel centro. Ripassiamo accanto alla torre e raggiungiamo il molo, con quell’acqua salata che si chiama mare. Ci sono delle barche, ci sono taaante barche, bevenuti ad Auckland! Mi guardo intorno incantato come se non avessi mai visto una barca a vela prima d’ora. È difficile spiegare che nell’ultimo anno ho visto dieci barche a vela, di cui otto ancorate a Sorong, e una a Pulau Gebe, che navigava a motore. Per vedere una barca navigare a vela, ho dovuto costruirla da solo. Qui davanti a noi invece c’è un andirivieni di barche costante, in ingresso e in uscita dalla darsena.
Il sole è ancora basso, nonostante mi sembri tardissimo per via della notte insonne. “Non so perché, ma la Nuova Zelanda mi fa un effetto strano. Sono appena arrivato, eppure mi sento a casa.” Forse è il primo paese su cui sono abbastanza informato? O forse il mio subconscio considera la Nuova Zelanda come il paese in cui fermarsi e riposare. Riprendere a scrivere, fare allenamento, lavorare e molte altre attività normali che sono state soppresse per molti mesi. Non lo so, ma mi sento a casa. Se non fosse che mi mancano famiglia e amici qui, sarebbe proprio come l’Italia.
Ho un altro po’ di domande sul Vietnam e sul duo Emeline-Cecilia, così ci fermiamo a lungo a chiacchierare sotto il sole, divagando. Le due sono state sempre insieme in Vietnam, con l’intento di separarsi in Thailandia. Poi è successo che Cecilia non stava bene, quindi alla fine hanno viaggiato separatamente solo per due settimane. Emeline ne ha bisogno, viaggiare la aiuta a lavorare su di sé, perché a quanto capisco, le manca un piano d’azione per il futuro. È allucinante che certa gente si permetta di criticare e giudicare come quei viaggiatori da quattro soldi che le ricordano che è troppo vecchia per viaggiare. Posso aspettarmelo viaggiando in India, ma non in un ostello di un paese occidentale. (Lo so che siamo nell’angolo Sudest della carta geografica, ma è popolato di scozzesi e irlandesi, con cervelli occidentali.) Emeline aggiunge: “E dire che viaggiare dovrebbe aiutare a fare più esperienza, a lavorare su sé stessi.”
“Sono d’accordo sul fatto che i viaggiatori dovrebbero tenere chiuso il becco e capire le differenze, invece di sputare sentenze, ma non per quanto riguarda l’esperienza. È vero che viaggiando sto raccogliendo una quantità enorme di esperienze diverse, di storie e di paesaggi, ma non credo affatto di avere più esperienza di chi è rimasto a casa. Ho un’esperienza diversa, sì, ma non penso che abbia maggior valore. Anche chi è rimasto a casa vive delle esperienze, giorno dopo giorno. È vero che, come viaggiatori, siamo sempre alle prese con situazioni nuove, ma la cosiddetta vita normale forse è anche più dura. Prendi me, per esempio, che sono in viaggio da un nno e mezzo. Non ho potuto passare del tempo con la mia famiglia, sono diciotto mesi esatti che mi perdo ogni uscita con gli amici, ogni discussione e ogni momento insieme. È una perdita enorme e non la si può recuperare.
Forse è dovuto alla mia formazione di biologo, che mi fa vedere le diversità sullo stesso piano. Un tempo, ai filosofi piaceva vedere le rocce, i funghi, le piante, gli animali e l’uomo come una scala. Tutto per arrivare a dire che noi siamo più grandi e più evoluti degli altri. Quello che si insegna adesso in biologia è che la vita si è diversificata come i rami di un albero, perciò tutti i viventi esistenti oggi sono il risultato di una serie di generazioni ugualmente lunga, fino a risalire alle prime forme di vita.
Questo significa che i nostri antenati e gli antenati di quell’insetto là, che cammina sul parapetto e sono già dieci minuti che mi distrae, sono vissuti sulla Terra per lo stesso numero di anni.  Siamo altrettanto evoluti e ironicamente, se domani dovesse cadere un meteorite come ai tempi dei dinosauri, quell’insetto là è probabile che sopravviva, mentre su di noi ho qualche dubbio. Chi è più evoluto quindi?
Allo stesso modo, penso che viaggiare non sia un metodo adatto a tutti. Andare in vacanza è un’attività piacevole, ma viaggiare non è adatto a tutti. Mia sorella per esempio non farebbe una cosa del genere. Oppure potrebbe, ma sarebbe una sofferenza, credo. Sta facendo anche l’università nella città in cui abito, che non è una città grande, ma è più vicina a casa. Sta crescendo anche lei, ma in un modo diverso e più adatto.”
“Vero, ma viaggiare aiuta tantissimo a passare del tempo da soli e a fronteggiare situazioni diverse. Serve a crescere e a conoscere più luoghi e modi di pensare diversi.”
“Io quando viaggio penso spesso a chi incontro che è esperto del luogo in cui vive, come i tuoi amici nella penisola qui a Nord, che conoscono tutte le oiante medicinali e gli alberi eccetera. L’unico modo per acquisire quelle conoscenze è restare in un posto per una vita. Chi viaggia vede piante nuove tutti i giorni e non ci capisce più niente. Mi è venuto in mente un esempio bellissimo.
Un mio amico abita in un paese dove abitano questi due uomini, di più di novant’anni, che sono amici da una vita. Uno dei due lo chiamano Schègia e ha viaggiato in tanti paesi, un po’ per lavoro e un po’ per piacere. L’altro si chiama Riccardo (Riccardo Bertani) e non si è mai spostato dal paese, dove coltiva un podere. Solo che il secondo dei due, quando aveva diciannove anni, ha iniziato a studiare il russo e a interessarsi delle lingue della Siberia. È successo che ha raccolto manoscritti, nastri registrati, giornali e ogni sorta di pubblicazioni relative alle tradizioni e alle storie tramandate oralmente dei popoli della Siberia. Così adesso è in grado di capire e tradurre più di novanta lingue siberiane, senza mai essersi mosso dal proprio paesino.” Non serve altro perché questa storia non richiede commenti. Proseguiamo in chiacchiere girando per la città.
Tagliamo attraverso il fragoroso corteo del gaypride e vado a comprare una nuova sim e Emeline compra una sigaretta elettronica. In Thailandia sono vietate e per evitare guai lei ha gettato la propria. Mi sembra un’occasione ottima per raccontara la storia dello spray al peperoncino e del mio quasi arresto in Iran. (Un giorno la scriverò, promesso)
Poco più tardi, noto che la sigaretta elettronica gialla che ha comprato è poco curata nei dettagli, fatta di un pezzo unico di plastica che probabilmente è di qualità scadente. “Non dirmi è una sigaretta elettronica usa e getta.”
“Te l’avevo detto che in Nuova Zelanda sono rispettosissimi alla natura, ma per altri aspetti non c’è attenzione.”
Non ci posso credere. “Cioè, mi stai dicendo che quando è finita non la si restituisce in negozio, ma va direttamente nel cestino? Batteria, elettronica e tutto?”
“Non guardarmi così…”
“Ahahah, non ce l’ho con te, è che è incredibile. Ma come si fa?”
Qualche ora fa Emeline ha fumato l’ultima sigaretta vera, comprata in Thailandia. Per una legge neozelandese molto recente, la vendita delle sigarette convenzionali è stata limitata ai soli fumatori attualmente maggiori di 15 anni, che saranno l’ultima generazione a poter acquistare sigarette normali. Inoltre il numero di punti vendita sarà ridotto progressivamente, perciò comprare sigarette sta diventando difficile. Ne ero già al corrente.
Ormai è ora di pranzo, e ieri era il compleanno di Emeline, che deve aver festeggiato in aeroporto. Una grande festa immagino. Solo che non vuole decidere dove pranzare, quindi girovaghiamo finché non mi viene in mente di cercare un forno che veda delle pie inglesi. (I tortini salati con carne, funghi verdure o altre cose) Altrimenti ci sono dei gran fast food che vendono cibo fritto e bar con panini che costano come in aeroporto. Mentre guardo i prezzi, non posso fare a meno di osservare che mi devo ancora riabituare ai prezzi occidentali, nonostante due settimane passate in Australia. “Però sono felice di vedere dei prezzi alti, significa che in generale c’è benessere e il tempo passato a lavorare vale qualcosa.” Emeline non ha idea di quanto costi il riso in Vietnam, così mi azzardo a fare una stima e spiegarle come mai basta un euro o due per mangiare. Gli sforzi spesi per preparare da mangiare non valgono quasi niente.
Il caso vuole che, mentre andiamo verso il forno, passiamo davanti ad un ristorante vietnamita. Poche ore fa Emeline aveva menzionato, con grande nostalgia, il suo piatto preferito in Vietnam. Entriamo senza esitazioni a ordinare due bahn mi. Lei preferisce pagare dopo, non so perché. Ne approfitto subito per andare in bagno e fare una mossa alla Hakan Şahin (storia che non ho ancora raccontato, Hakan è il gioielliere di Pamukkale). Torno dal bagno e pago di nascosto.
Io non ho idea di che cosa aspettarmi e rimango di stucco vedendomi arrivare un cestino con dentro una spanna di baguette farcita con maiale arrosto, cetrioli e carote a julienne. Ora capisco perché Emeline ne parlava con commozione prima, cerco di non ridere. “Il pane sta tornando nella mia dieta, dopo mesi e mesi.” Anch’io mi sono un po’ commosso vedendo il paaane. Il secondo motivo di commozione è la salsa piccante, perché dopo Jayapura è tornato il pane, ma è scomparso il peperoncino. Dopo altre lunghe chiacchiere al tavolo ce ne andiamo, le auguro buon compleanno passando davanti alla cassa e riprendiamo il vagabondaggio nelle vie del centro. Sono ancora sconvolto dai negozi, ci sono tantissime marche famose che non vedo da un’era, montagne di oggetti e servizi che non trovano posto in molti dei paesi che ho visitato, dove il riso stesso può essere un investimento. 
Ci fermiamo al sole in una piccola zona verde incastrata tra i grattacieli del centro, mentre il sole inizia a scendere.
Il posto dove passerò la notte è a due ore di cammino da qui, forse è il caso di tornare in ostello. Ripassiamo davanti alla torre, che adesso mi pare molto più alta di prima.
Domani Emeline fuggirà dall’esoso ostello di Auckland, per andare in autobus a casa di una famiglia che conosce. La vivono in una tenuta senza elettricità e alla sera, invece di guardare la televisione, qualcuno prende un libro e lo legge ad alta voce. Si mangiano tanta verdura e tanto pesce e c’è il mare poco distante. Ci salutiamo con un caloroso abbraccio e parto verso la periferia di Auckland. È meraviglioso passare un po’ di tempo con altri viaggiatori, sono momenti davvero speciali.
Esco speditamente dal centro, ricambiando i saluti di qualche passante, poi attraverso quartieri residenziali infiniti, pieni di case bianche all’inglese e tanto tanto verde. Ci sono alcuni corsi d’acqua a tagliare il terreno ondulato, lasciati incolti e il più possibile naturali. Attraverso anche un grande parco pubblico con un sistema di laghetti. Non ho fatto neanche dieci passi e mi trovo davanti un pennuto decisamente simile a un takahē. Ci assomiglia e basta, i takahē sopravvivono solo nell’isola del Sud con una piccola popolazione scoperta nel 1948, quando si credeva che fossero estinti. Questi razzolatori blu e neri invece sono più piccoli e comuni. Sono anche territoriali, laggiù ce n’è uno che corre dietro alle anatre, urlando parole indicibili dal proprio becco rosso e tozzo. Per completare le stranezze di questo mondo a testa in giù, giustamente non potevano mancare i cigni, neri. Alla fine del parco attraverso un quartiere con le vie che si chiamano con nomi di uccelli. Via Tui, via Riro, via Moa, via Kiwi, via Huia ed ecco il supermercato. Si cena!
Fatta la spesa raggiungo Point Chevalier, davanti al circolo di vela. All’interno c’è una festa, nel parcheggio invece ci sono i figli degli invitati, di poco maggiori di quindici anni, armati di automobili e tabacco.
Io mi accomodo su una panchina a guardare un po’ loro e un po’ il mare, mangio fagioli e penso a questa terra incredibile, situata nello spigolo del nostro mondo rettangolare.
O forse, dato che questa è un’isola di navigatori, sarebbe più opportuno utilizzare una carta geografica di Spilhaus. In questo caso mi troverei praticamente al centro.

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