In Papua

Lezione di ieri: nei paesi troppo poveri per essere degni di mappatura accurata, esistono lunghissime strade non segnate sulle carte.
Venerdì 06/01/2023 Gag (Indonesia)
Qualche ora prima dell’arrivo, attraversiamo uno scroscio di pioggia, con raffiche di vento che spazzano il ponte. Malgrado la tettoia, metà delle panche diventano presto inabitabili. Grazie alla lunga permanenza ai tropici, ormai so bene che la pioggerellina si può trasformare in acquazzone in due minuti. Trasloco appena in tempo sulle panche sottovento. La pioggia orizzontale arriva fino qui, ma invece di correre sottocoperta, imito gli altri e aspetto. Difatti, la pioggia dura solo mezz’ora e lo spazio in coperta viene presto riconquistato a colpi di fazzolettini di carta.
Nel frattempo ho iniziato a chiacchierare con Syahrul, che è diretto alle miniere di Bintuni. È originario di Java, ha ventitre anni e parla un po’ di inglese. Potremmo tranquillamente parlare in indonesiano, ma Syahrul vuole fare pratica, anche se costruire ogni frase gli costa uno sforzo immane. È rarissimo che i miei interlocutori si sforzino così tanto per parlare una lingua che conosco bene, piuttosto che provare lasciano perdere. Sono ammirato e anche esterrefatto dalla sua perseveranza. Nel frattempo qualcuno ha comprato caffè per tutti e un altro ha messo in mezzo al tavolo qualche dolcetto. Poco a poco il cielo si rischiara e appaiono le isole circostanti, meta turistica famosa quasi quanto il nord del Pakistan. “Sei già stato a Raja Ampat?” “No, non ho tempo per le isole”, e dai.
Le isole visibili da qui sono ancora talmente naturali che le coste sono rimaste invisibili fino all’alba. Neanche una lampadina.
Nei pressi del porto di Sorong, ci sono delle barche con delle specie di enormi aghi che puntano verso l’alto, con delle corde che salgono fino in cima e poi si fermano. Sono velieri turistici per gli oranghi occidentali, ai quali piace salire sui velieri. Ce ne sono tanti, saranno quasi una decina e testimoniano le dicerie riguardo a Sorong, città turistica. Non so, io ho incontrato l’ultimo turista tre mesi e mezzo fa, nel Nord della Malesia. Non mi lamento, non sono venuto fino qui per incontrare altri europei.
Il molo è già pieno di traghetti, quindi aspettiamo, girando in tondo per non perdere abbrivio. Sto morendo dal ridere, non ho mai visto fare una manovra del genere ad una barca a motore. Ebbene, questa è la Papua. Come la Papua? Sì, proprio la Papua, quella terra già scoperta che continua a non esistere. Non ci arrivano mai notizie dalla Papua, i papuanesi difficilmente emigrano, non ci sono neanche le strade a connettere certe località con l’esterno. Ci si sposta in aereo oppure non ci si sposta affatto. Per quanto davanti a me ci sia una città moderna, mi sento come se fossi arrivato ai confini del mondo conosciuto. Siccome noi non conosciamo la Papua, in un certo senso è vero.
Infine attracchiamo e Adolf mi dice di aspettarlo, non so perché. Non c’è problema, tanto piove. Mentre aspetto, tre operai caricano su un pick up alcuni quintali di rottami rugginosi provenienti dallo stabilimento di Gebe. Sono equipaggiati con i dispositivi di protezione individuale tipici dell’Indonesia: maglietta, pantaloni corti e infradito.
Durante l’attesa, scende Irfan, uno di quelli che ho conosciuto ieri nel mio angolo di ponte. Ha ventidue anni, è originario di Ternate ma abita a Manokwari e ieri mi ha offerto un passaggio in camion. È per questo che Adolf mi ha consigliato di aspettare. Salgo a bordo insieme a Irfan, la moglie Enjel e il piccolo Adelìo. Sono tutti belli, anche se Adelio con l’accento sulla I mi spezza in due dal ridere.
Questa notte Irfan e famiglia pernotteranno qui a Sorong, perciò è già chiaro che ci rivedremo direttamente a Manokwari. Giriamo per la città in cerca di un posto che venda il bakso, quel brodo con noodle misti, polpette e tanto altro. Finito il pranzo, le nostre strade si dividono e ci diamo appuntamento a Manokwari, nella Papua Occidentale. Per ultimo Irfan insiste perché accetti un pacchetto di wafer.
È giunto il momento di capire che cosa è successo al console della Papua Nuova Guinea, che da un mese e mezzo non risponde alle mie email.
Sono già a metà strada e ho appena finito i wafer, quando si fermano due ragazze in motorino, per chiedermi chi sono. L’ufficio sta per chiudere, così ci diamo appuntamento a dopo in un bar. Proseguo a lunghe falcate.
All’ufficio immigrazione parlano addirittura l’inglese, ma non è assolutamente possibile telefonare direttamente all’ufficio immigrazione di Jayapura. Tuttavia mi forniscono un’indirizzo email e un contatto Instagram. A quanto pare Instagram è il mezzo migliore. Ora non resta che aspettare lunedì.
Passa a prendermi Lulu in motorino, così entriamo in un bar al fresco per fare quattro chiacchiere insieme a Melda, che ci aspetta dentro. Ho già rinunciato a indovinare le età, dopo Adolf ho ancora in mano la bandiera bianca. A quanto pare io sono leggermente più giovane di loro, ci avrei quasi azzeccato. Evidentemente le donne di Ambon invecchiano onestamente. Entrambe insegnano alle elementari, Lulu insegna inglese ed è più disinvolta nel rivolgersi a me in indonesiano o in inglese. Melda è più timida e fa bene, si sa che gli stranieri sono mordaci. Mi raccontano che insegnare ai bambini papuanesi è un’impresa, bisogna inventarsi mille modi per mantenerli interessati. È quello che sospettavo, in effetti, a giudicare dalla soglia dell’attenzione degli adulti. Sarebbe molto interessante vedere come si svolgono le lezioni qui, in questo mondo così diverso. Ci trasferiamo a casa di Lulu e sua madre, per pranzare. Hanno già chiamato un mototaxi per portarmi là.
Ad accoglierci c’è mamma Sarce, così mi accomodo dentro. Mangiamo e chiacchieriamo a lungo dell’Indonesia e dell’Italia, così lontana. Intanto so aggiunge anche Sarsa con la figlia Madeline. Riesco addirittura a indovinare l’età di Sarsa con due anni di errore. Janet, un’altra amica, invece è impossibile. A occhio direi che è un po’ più giovane di me, ma ha lineamenti simili ad Adolf e mi rifiuto di indovinare. Per quanto ne so potrebbe avere dodici anni o ventiquattro, indifferentemente. La risposta giusta è ventitre, ha senso.
Usciamo per andare in farmacia, ho bisogno di un unguento per sterminare la tigna. Janet mi fa guidare il suo motorino, così guido per la seconda volta in un mese. Sensazione stranissima.
Già che siamo in giro, Sarce ci ha inviato a comprare le banane fritte al formaggio. Dopo il risotto a Samarinda non voglio più sapere che razza di sostanza usino come surrogato del formaggio, non faccio domande. Importa solo che le banane siano buone, il ché è una garanzia, dal momento che sono fritte. Intanto il sole procede la propria caduta verso l’orizzonte, ormai resta solo un’ora di luce. Accetto la proposta e resto oppure riparto rispettando il piano? Non ho ancora capito se mi hanno proposto di restare solo come cortesia, ma di certo sarei un pazzo a rifiutare l’offerta. Quando mi ricapita una compagnia così, oh insomma! Accartoccio il piano vecchio e mi rilasso di nuovo, altre dodici ore beato tra le donne, come si dice. Inoltre ho ancora una marea di domande irrisolte riguardo a questa terra, restare qui fino a domani è perfetto.
Restiamo in salotto anche dopo cena, fino a tarda sera, quando è ora di dormire perché le ore senza sonno iniziano ad accumularsi.
Dormo su un materasso sul pavimento della sala.

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