Samirin

Lezione di ieri: Se non si sta seduti come si deve, portare il sarong non è una buona idea.
Mercoledì 14/12/2022 Samarinda (Indonesia)
Le calze sono asciutte, i pantaloni non ancora. Sono quasi le otto ma dormono tutti, così faccio colazione con riso e zucca, poi torno a dormire anch’io.
Mi risveglio due ore dopo, ma con ancora lo zaino da preparare, che scoraggerebbe chiunque. Adesso devo riuscire a farci stare anche il sarong, che è fatto con due metri quadri di stoffa, per quanto sottile. Meglio schiacciare un altro pisolino perché ho ancora sonno da vendere.
Tutto è pronto all’alba di mezzogiorno, saluto Efendy, Budhi e anche Donjai, che sonnecchia sotto una tenda e sembrava sparito. Il pesce combattente nel barattolo invece non lo saluto, perché ha lasciato questo mondo due giorni fa. “Possiamo andare?” Giustamente, Acmad ormai scalpita, però io devo ancora salutare le scarpe. Progettavamo di arrivare insieme fino in Nuova Zelanda, ma in questi 410 giorni hanno fatto anche troppo. La tomaia è andata distrutta ormai, le solette sono bucate e il vibram della suola è liscio come le mie ciabatte. È incredibile vedermi addosso delle scarpe nuove, spero che reggano abbastanza a lungo, malgrado il prezzo.
Per prima cosa, compriamo qualcosina ler fare colazione. Poi passiamo a salitare Ami davanti all’azienda in cui lavora, che distribuisce generi alimentari. È proprio ora di salutare Samarinda, si parte verso Sud. Questa volta stare seduto sulla moto non sarà così complesso come a Sumatra, dobbiamo fare solo due ore di moto.
Arriviamo a Samboja Lestari dopo pranzo, imboccando una strada sterrata. Qui si trova la riserva naturale gemella di quella che ho visitato a Nyaru Menteng, un mese fa. La sicurezza all’ingresso ci ferma subito, spiegando che per entrare serve il certificato vaccinale, un tampone covid fresco di giornata e una prenotazione. Non sapevamo di alcuna prenotazione, ho letto sul sito dell’organizzazione che l’ingresso è gratuito. Ci danno un numero di telefono per chiedere ulteriori informazioni, intanto torniamo indietro.
Dato che la riserva ci è preclusa, ci spostiamo direttamente a casa di una zia che abita a Teluk Pemedas. Lungo la strada, inizia a piovere, così ci fermiamo sotto il portico di un piccolo bar a bere un tè, fumare e telefonare per capire se è possibile parlare con qualcuno che lavora alla riserva, senza bisogno di entrare e vedere. Acmad mette giù e mi risponde che non si può. Piuttosto, ci Suggeriscono di effettuare una Donazione di 35 euro a cranio, per poter fare una visita guidata di due ore. Nel caso vogliamo restare più a lungo, possiamo anche fare una donazione molto più grossa e pernottare lì. “Ma perché devono essere così europei?” dico io. Inizio a sospettare che domani non ci vedranno tornare. Bisogna pagare 35 euro anche per entrare in Indonesia, ma il visto dura un mese invece che due ore soltanto. Mi torna in mente che il prezzo del biglietto e del tampone costano quanto tutti i traghetti da Sumatra alla Papua, avevo fatto i conti un mese fa. Inoltre non ci sono tariffe diverse per gli indonesiani, possono permettersi entrare solo i ricchi. In proporzione ai salari, la donazione di ingresso costerebbe almeno duecento euro, in Italia. Acmad continua a ripetere, incredulo, che costa uno sproposito. “Non preoccuparti Acmad, se la porta è chiusa allora entreremo dalla finestra, di solito mi succede così.”
Poco più tardi ci fermiamo davanti a una farmacia, che è anche la casa della zia di Acmad. Ci accomodiamo dentro, aspettando che ritorni a casa il cugino farmacista, Inugrahà. Ho proprio del lavoro per lui, a quanto pare i miei piedi hanno bisogno di un’occhiata. Appena arriva stabilisce la diagnosi a colpo d’occhio. “Pulce d’acqua, non è niente, ti prendo subito la pomata che ci vuole.” Qui si chiama kutu air, ma è un parassita. In italiano vuol dire qualcosa come piede d’atleta, basta il gentalin beta e una settimana di vita in ciabatte. Molto sollevato, inizio a sfruttare il wifi e a inviare foto e video a casa. I wifi sono rari qui e io gli do una caccia spietata.
Più tardi, ci raggiunge Robert, un amico che studia architettura. Nel frattempo Inugraha ha comprato un grosso pesce che sembra un dentice, da arrostire per cena. Scalzare le squame dalla pelle richiede una certa pazienza perché ciascuna è grande come l’unghia di un pollice. Accendiamo la carbonella bruciandoci sopra i gusci di cocco, prendiamo mezzo dentice e lo arrostiamo per benino sulla griglia. Ah, da quanto tempo non griglio con le mie solite compagnie di amici. Già che ci sono, racconto della grigliata del 30 dicembre, che ormai è diventata tradizione. Tre anni fa stava per essere sostituita da una triste cottura in cucina, così abbiamo un’attenta analisi del valore intrinseco alla grigliata. La carne è solo un pretesto, il bello è fare il fuoco e trascorrere ore riuniti lì intorno a cuocere in abbondanza per almeno venti convitati. Fa sempre freddo in montagna a dicembre e spesso spegnamo i fuochi dopo il tramonto, ma sono ore conviviali insostituibili. Una volta abbiamo grigliato anche con la neve, tanto basta solo trovare il giusto equilibrio tra giacca, fuoco e vino. Il dibattito sulla grigliata di capodanno resta memorabile.
Il pesce è quasi cotto, ma perché lo hanno messo sotto il ventilatore? Ah, ho capito, vogliono condirlo con un altro strato di salsa e completare la cottura. È da un bel po’ che mi domando quale sia il metodo che usano gli ambulanti.
La cena, naturalmente, è spettacolare. Inizialmente pensavamo di uscire dopo cena, ma i piani sono cambiati e resteremo qui seduti in cerchio sotto il portico di legno. A un tratto, Acmad guarda tra le assi e nota che sta salendo la marea. “In che senso la marea, vuoi dire che c’è il mare qui sotto?” Non proprio, la spiaggia dista
cinquanta metri e qui accanto c’è un canale navigabile, e con la marea l’acqua salmastra allaga il terreno sotto la casa. Forse è per questo che ci sono pochissime zanzare. Se è davvero così, è geniale.
Restiamo solo in tre, Inugraha torna a casa dalla famiglia. Questa sera mi aspettano altre lezioni da parte di Acmad, ad esempio le posizioni di chi si siede a gambe incrociate. Chi tiene un piede sul ginocchio e il sarong così e le braccia cosà, beh, è un lontano discendente di un re. Efendy invece è un principe, siede con i piedi in basso e la mano che non fuma posata sul ginocchio, con il gomito ben in alto. È vero in effetti, l’ho visto spesso seduto così.
Nel frattempo, Acmad riceve dei messaggi dallo studio di architetti in cui lavora, alle 23:30. È inutile, quelli non dormono mai, come ha detto Tiffany durante il seminario. “Già che ci siamo, Robert, perché studi architettura?” Mi spiazza, rispondendo che proprio non lo sa. È meglio della risposta che mi diede Erdoğan a Kars, ma non è poprio quello che mi aspettavo.
Che altro? Ah sì, Acmad ha deciso che mi serve un nome indonesiano. Ci pensa un attimo e mi propone Samirìn, un nome giavanese un po’ desueto, che significa affascinante e carismatico e un sacco di altri complimentoni. D’altra parte Acmad la sa lunga, in fatto di tradizioni, architettura e filosofia. Anzi, ha già pronto un secondo nome, che è Rimbà. Rimba sarebbe una particolare condizione della foresta, difficile da tradurre. La parola che più ci assomiglia è “giungla”, inoltre rimba è il titolo di una canzone indonesiana che si intitola “Di rimba”.
Carico foto e continuo le chiacchiere, mentre le sigarette cadono a pioggia nel portacenere. Quattro ore dopo ce ne sono già ventinove, semisepolte nella montagnola grigia.
Una volta elaborato un nuovo piano per domani, andiamo a letto dopo la preghiera serale.

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