Il maltrattamento dei rifiuti

Lezione di ieri: Non serve a nulla sbracciarsi, se non si è in grado di colpire. (Tratto da: Come imparare il badminton, di punto in bianco)
Giovedì 08/12/2022 Samarinda (Indonesia)
Eh com’è tardi, ci goleva proprio una bella dormita. Al piano di sotto sono già svegli, Efendy (Efendì) mi avvisa che a mezzogiorno usciamo a pranzo a mangiare coto Makassar (la c è dolce, la k è dura, l’accento è sempre in fondo: ciotò Makassàr). Non ho idea di che cosa sia, ma sarà buono, in Indonesia non ci si sbaglia.
Usciamo in moto per spostarci in un’altra zona della città, scavalcando un paio di collinette. Bisogna riconoscere che Samarinda non è piatta come Reggio, ma con un cambio a tre marce questa salitina farebbe ridere i polli. D’altra parte è faticoso pedalare, per non parlare del rischio di tenersi in forma e in salute.
Al ristorante ci aspetta Ami, la fidanzata di Acmad (in pratica si pronuncia Akhmad, per gli amici Mr. Ricky). Questo coto Makassar è una zuppa di carne di manzo, con soffritto di aglio e cipolla, peperoncino e salse a piacere. Al centro del tavolo, c’è un cestino pieno di pacchettini marroncini. Sono fatti con strisce di foglie di palma intrecciate e contengono dei cubi di riso come quelli che preparavo a pulau Perhentian. Il tempo di cottura lungo fa espandere i chicchi di riso, che però possono assorbire una quantità d’acqua limitata perché costretti dentro l’involucro. Raffreddandosi, i chicchi si incollano, come in una torta di riso in bianco. Sto per iniziare a disfare l’intreccio di foglie, ma mi fanno notare che il pacchetto è già stato tagliato in diagonale, basta spaccarlo in due e scavare con il cucchiaio, facilissimo. Inoltre il riso è lasciato alla mercé dei clienti famelici, non mi servono ulteriori incoraggiamenti. I pacchetti sono grossi la metà di un pugno, perciò otto o nove si finiscono facilmente. Sto esagerando forse? Non capisco, qui al tavolo mi incoraggiano dicendo che è gratis, ma i tre che hanno ordinato coto Makassar come me ne hanno mangiati solo sette. Sette in tutto. Non che sia un gran problema perché offre sempre Acmad, ma forse c’è qualche norma culturale che mi sfugge, ne scopro una nuova ogni giorno.
No, nessun equivoco, è solo che gli indonesiani mangiano quanto gli uccellini. Non è neanche usuale finire il fondo della zuppa, quando si pesca l’ultimo pezzetto di carne si lascia lì il resto. Io invece voglio una moglie bellissima, come mi ha insegnato Rəşad (Ræsciàd) in Azerbaijan, pulisco il piatto. Nonostante sia in Indonesia da un mese e mezzo ormai, non sono ancora abituato a quanto siano bassi i prezzi dei ristoranti. Per tre scodellini di carne in brodo e riso confezionato in foglie intrecciate a mano, più il piatto di Efendi, Acmad spende appena cinque euro. Questi prezzi prossimi a zero traggono spesso in inganno i turisti, che immaginano che le materie prime costino altrettanto meno di quelle italiane. È la manodopera a costare molto meno, ma le materie prime costano solo un po’ meno. I prezzi non sono proporzionati alla disparità di salario, neanche lontanamente. Addirittura il riso più economico ha lo stesso prezzo di quello italiano, 11.000 rupie indonesiane. Ha senso: il riso si conserva molto a lungo, quello che c’è qui si può spedire in Italia via nave, con un ricarico minimo per ogni chilo di riso. Torna utile essere abituati a mangiare poco.
Più tardi, di fronte a casa ci sono gli operai al lavoro per proseguire i lavori di cementificazione del piccolo fiume qui accanto. Distruggere quel poco che resta da distruggere aumenta il PIL, perciò le infrastrutture di pubblica inutilità trovano sempre le porte spalancate. Una volta finiti gli argini, nessuno si ricorderà più che in questo canale di scolo una volta c’erano le piante acquatiche e si pescavano i pesci. Quasi a rappresentare l’ignoranza con cui vengono finanziate queste soluzioni grossolane, un operaio è alle prese con la rimozione di un pilone di cemento. Deve mettere a nudo l’armatura di un pilone cavo, forse per inglobarla in una nuova colata. per farlo si serve di una mazza immanicata su un ramo verde, che flette ogni volta che carica il colpo sopra la testa. Ora, i piloni di cemento armato sono progettati per sostenere carichi verticali, quindi che cosa succede percuotendoli duecento volte con un granellino di acciaio di dieci chili? Proprio niente, esatto. I progressi migliorano sensibilmente quando decide di salire sul pilone per picchiare sui fianchi, apre un buco con cinque mazzuolate. Mi ritorna in mente la morale della partita a badminton di ieri sera, che sarebbe perfetta anche in questo caso.
È oggi che riprenderò a scrivere? Non credo proprio, visto come sono andate le ultime due settimane. Piuttosto Acmad mi propone di prendere un caffè, quindi perché no? Mi fa sempre sorridere la profonda differenza nel “prendere un caffè” in Italia e in Indonesia. In Italia io sorseggio l’espresso e gli amici mi chiedono perché non l’ho ancora finito, che ormai si sarà raffreddato. Qui invece i miei sforzi non bastano mai per finire una bevanda qualsiasi con la stessa parsimonia che usano loro nel bere il caffè lungo. Sono capaci di preparare il caffè, dimenticarselo nell’attesa che si raffreddi e poi sorseggiarlo piano piano, nel corso di un’ora o molto di più. Ma piano piano eh, giusto un assaggino per bagnarsi il becco. Acmad mi racconta che suo padre addirittura prepara il caffè la sera prima. Può darsi che sia dovuto ad una vecchia abitudine dei tempi coloniali, quando gli unici a poter accedere il caffè erano i servitori degli olandesi. Andava bevuto adagio adagio però, per farlo durare. Non so se sia davvero questa la ragione, ma giuro che ho avuto la stessa impressione quando sono arrivato a Sumatra.
Oggi gli altri lavorano ad un progetto, così io decido di rifare un test online che si chiama Politiscales e un altro che si chiama 16Personalities. Ogni pochi anni li ripeto per la curiosità di confrontare i risultati. Meno male che mi chiama la mamma, alla quale ho spiegato che è inutile girare il dito nella piaga del dispiacere dei lettori. Servono soluzioni, e la mamma ha anche quelle. “Taglia e riparti da adesso, è più coinvolgente per chi legge e tutti mi chiedono dove sei.” “Già, anche quella mappa è indietro, ma ultimamente ho fatto aggiungere a Mors qualche migliaio di chilometri.” È che mi ero detto: “Finisco il Nepal e poi riempio un po’ il buco dalla Georgia al Pakistan, che va colmato.” Solo che nel frattempo in Nepal è arrivato l’inverno e ho fatto la fine di Napoleone. Per questo è importante studiare la storia.
È geniale, come ho fatto a non accorgermene! Provvedo subito, un giorno poi riempirò quelle voragini temporali in cui Rəşad mi ha adottato in Azerbaijan, Hakan mi ha raggiunto in Iran, sono stato una settimana in Oman con Jusif e ho attraversato rocambolescamente l’India, da Sud a Nord. Verrà il tempo anche per questi racconti, ma ora bisogna riprendere dalle giornate facili e archiviare più articoli possibile. Così, rieccomi in pista, per lungo tempo spero.
Più tardi torna Acmad e si aggiunge anche un certo Ronal (Ronàl, l’accento è sempre sempre in fondo, siamo in Indonesia) con tre scatole di martabak, un sorta di frittata, da mangiare per cena (martabàk, proprio sempre sempre sempre in fondo, da adesso non lo dico più) (SEMPRE, anche se suona strano). È giunta l’ora di porre qualche domanda ad Acmad, perché io giuro che non riesco a comprendere. In Indonesia c’è pieno di netturbini ruspanti, uomini, donne e ragazzi. Sono ruspanti perché cercano i materiali riciclabili nei cumuli di rifiuti a bordo strada, oppure selezionano quelli sparsi tra le erbacce. Alcuni invece raccolgono il cartone che i negozi tengono da parte. Il problema, ovviamente, è che i suddetti cumuli sono un misto di tutto quello che si butta via. Ripeto che la raccolta differenziata è latitante da quando ho lasciato Rijeka, in Croazia. È ricomparsa in centro a Bangkok e in qualche luogo isolato in Malesia, tutto qua. Come si può immaginare, lavorare giorno e notte tra i rifiuti è un toccasana, specialmente se i rifiuti intorno stanno bruciando. Giusto stamattina Acmad e io abbiamo sorpassato un motorino carico di cartone, guidato da un uomo con le caviglie scoperte. Non so che accidenti stia succedendo alle sue gambe, e sicuramente nessun dottore ha mai dato un’occhiata a quelle specie di bolle o di pustole sulla caviglia.
Ai tempi di mio nonno, la Cooperativa del Tempo Libero di Bagnolo è stata finanziata anche con la raccolta di stracci e materiali riciclabili. In quel caso però si raccoglievano i rifiuti porta a porta, alla fonte.
Perciò una domanda mi sorge spontanea, perché diavolo nessuno tiene da parte il cartone come faceva Moss a Bangkok? Allo stesso modo, perché questi netturbini indipendenti non raccolgono i rifiuti porta a porta?
C’è un uomo che passa di qua ogni mattina alle otto, mi racconta Acmad, e raccoglie i sacchi del pattume lasciati sulla soglia delle case. Per questo servizio viene pagato due euro al mese da ciascuna famiglia, cioè deve servire cento case tutti i giorni dell’anno per arrivare a racimolare il salario minimo indonesiano. Tuttora non ho capito come sia possibile vivere in Indonesia con solo duecento euro al mese, sicuramente è meglio servire duecento case, ma non so se sia fattibile.
“Dimmi Acmad, quell’uomo dove porta i rifiuti?”
“Hai presente l’ospedale al quale passiamo davanti andando all’università? Ecco, lì vicino.” Evito di commentare la vicinanza con l’ospedale, ma resta il fatto che l’ospedale dista quattrocento metri da qui. Andare così lontano servendosi dei piedi è sicuramente inconcepibile, ma non basta fare una piccola deviazione e portarlo là da soli? Tutti qui passano davanti all’ospedale almeno una volta al giorno, ma evidentemente tremila rupie sono un pagamento talmente miserabile che chiunque accetterebbe, ce ne vogliono ventimila per mettere insieme un piatto di cibo semplice, preparato in casa. Inoltre gli indonesiani ammettono candidamente di essere pigri e portare via il pattume fin là sarebbe uno sforzo immane. Inoltre sospetto che l’immondizia smetta di essere un problema una volta varcata la soglia di casa. Voglio dire: i rifiuti in casa vanno allontanati il prima possibile, ma è bene averci a che fare il meno possibile. Non appena li si può lasciare in mano a qualcun altro, la scelta è automatica. È la spiegazione migliore che mi sia venuta in mente finora, ma nessuno mi sa dare una risposta precisa. Deve essere un tratto culturale con radici antiche, che ora non funziona più e i rifiuti si accumulano. La plastica non si decompone, gli inerti non bruciano e soprattutto la densità abitativa è aumentata mostruosamente.
Probabilmente coloro che raccolgono materiali riciclabili non passano di casa in casa perché nessuno è in grado di tenere i rifiuti separati. È un’assurdità, il pattume va gettato nel pattume, fine della storia. Acmad però ha abbastanza testa e cuore per capire che dividere i rifiuti abbia vantaggi sociali enormi. “Perché non lo fate in questa casa?”
“Non ci ho mai pensato”, risponde lui. Lo dice con l’aria di uno che abbia appena scoperto la pietra filosofale. Facciamo un giro in cucina, dove sotto al piano cottura c’è un cestone di plastica che pare fatto apposta per raccogliere la frazione secca. Ottimo, ora sono soddisfatto, l’esperimento può avere inizio.
Nel frattempo, tra i vari discorsi, si è fatto un po’ tardi. Andiamo a dormire.

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