Giorno 19 – Posso telefonare

Lezione di ieri: Una sola buona azione può far tornare il sole.
Mercoledì 20/07/2022 Puiya (Solukhumbu, Nepal)
Ho passato una notte ottima e senza aggressioni di cervi, al diavolo i seccatori!
La foresta sgocciola ancora, ma non è il caso di attardarsi a scrivere perché è prevista pioggia anche oggi. Faccio i bagagli, badando a non scivolare tra le piante fradicie. Khari La si raggiunge attraverso un sentiero secondario che sale a scalini alti, corti e sconnessi. In un attimo ci si trova cento metri sopra. Il problema sono i cento metri successivi, perché il versante della montagna è franato da qualche anno e il sentiero è scomparso. In pratica ci passa solo il bestiame, attraversando in qualche modo la frana.
Avanzo con cautela, ma tra rami caduti e pietre umide, finisce che scivolo proprio sopra a una cacca. Torcendomi come una biscia cado malamente su una pietra, con lo zaino sospeso a due centimetri dal letame. Un’ammaccatura alla coscia si può barattare con un’ora di lavaggio, mi sembra più che onesto.
Più avanzo, meno capisco dove sia il sentiero. Gli alberi e l’erba alta sono cresciuti dappertutto e la via più semplice mi sembra salire dritto per dritto su per la frana. Mi pare di vedere qualche pietra smossa, come se qualcuno fosse già passato di qua. Finite le pietre inizia un tratto di roccia molto ripida e liscia, che si è scoperta in seguito al distacco. Ormai sono quasi arrivato e non torno fin giù. Vedo una via, secondo me si può fare. Piano piano, con largo uso del bastone, si riesce a risalire. Scivolo su una cornice stretta ma le scarpe fanno presa su quella sotto. Non sono solo strette, ma il gelo le fa anche sfaldare. Supero l’ultimo minuscolo punto d’appoggio e trovo una strada ricavata nel fianco della montagna. Forse bastava prendere la sinistra al bivio prima della frana, pensa un po’. Da qui in poi basta seguire la dolce salita della strada forestale, prendere una deviazione sulla sinistra e trovare finalmente il passo, alla quota di 3080 m. Il panorama è tutto bianco, ma almeno non piove.
Ciò che mi sorprende non è il passo, ma il sentiero che trovo dieci metri sotto. Sono passato di qui all’andata, mi ricordo. Questo significa che posso ambire a completare il trekking dei sette passi, ne ho già superati sei su sette, non cinque. Non so come sia successo, probabilmente dopo Karé ho imboccato una deviazione in salita che minha portato fino alla casa sotto il passo. Non lo so, ma sono contento e bisogna che mi fermi a pulire lo zaino e la pentola dal fango e dalle simpatiche tracce di letame. Mentre sciacquo il sudiciume, un cane demente mi abbaia contro, senza posa. Peggio per lui.
Per scendere a Bupsa stavolta imbocco una strada diversa, un sentiero secondario stretto e pittoresco, con la segreta speranza di imbattermi in qualche animale. Gli alberi qui sono carichi di muschio e densi di foglie, verdi brillanti grazie all’abbondanza d’acqua. Niente animali, solo molte cartine di caramelle Fresco, perché l’alito è importantissimo quando si è da soli in montagna. Finito il bosco disabitato, faccio una sosta su una panca di legno, accorgendomi che è da un po’ che non vedo il cappello, appeso dietro lo zaino. Chissà quando è caduto, non posso tornare indietro a recuperarlo come Aje. Starà là, il mio buon cappello iraniano, ne comprerò un altro. La discesa a Bupsa sono settecento metri di dislivello infiniti, vanno affrontati con molta pazienza e attenzione perché gli ultimi chilometri sono privi di pietre, solo argilla bagnata. Io questo ancora non lo so e appena cambia il terreno faccio un bello scivolone. Ormai il vibram delle suole è così consumato che i tacchetti sono quasi completamente limati, ci credo che non ho aderenza. Malgrado tutta la mia buona volontà e concentrazione, il sentiero è decisamente troppo bagnato e ripido. Cado una volta, due volte, e ancora. Quando ritrovo il selciato di Bupsa ho i pantaloni sporchi e le scarpe lerce, così come lo zaino, le mani e le braccia. Bisogna che mi fermi a riposare e a lavare tutto quanto. Sono fortunato perché pochi metri dopo c’è un lavatoio che fa proprio al caso mio. Per lavare piano piano ogni vestito nell’acqua gelata ci vuole pazienza, ma io ne ho da vendere, pian piano si fa tutto. Grazie alla mia solita fortuna, c’è un’enorme falena posata sul prato, proprio qui e proprio adesso. Assomiglia ad una Saturnia zuleika, ma sicuramente è di un’altra specie. Per chi non le conosce già, normalmente le falene Saturnidi sono larghe una spanna. Questa non fa eccezione ed è facile tenerla appollaiata su un dito, perché non le resta molto da vivere. Mentre spero che i vestiti si asciughino inizia a piovviginare, così mi riparo davanti ad una locanda e lentamente, mi rivesto con i pantaloni, mezzi bagnati ma ben puliti.
Poco dopo la pioggerellina diventa almente fievole che decido di rimettermi in marcia, in maniera da raggiungere almeno Kharikola prima che piova sul serio. In verità l’obiettivo di oggi è molto più avanti, a metà della salita verso Taksindu La.
Rivedo l’albergo “Tara verde” e devo per forza fermarmi a chiedere che cosa vuol dire. A quanto sembra, il mio amico Tara qui è considerato una divinità, o meglio c’è una divinità che porta il suo nome. Il proprietario non riesce a spiegare nulla di più perché evidentemente non parla mai di divinità con i turisti. Tiro dritto con passo spedito, sempre giù per centinaia di metri di dislivello, ben deciso a completarne 1500 e arrivare a fondovalle. Ripasso accanto a tutte le pietre Mani, le stupe e i cilindri delle preghiere dell’andata, superando via via le rientranze a zig zag della montagna. Di tanto in tanto mi concentro sullo zaino, che fortunatamente è tornato leggero. Mentre divoro la leggera salita di Khari Kola, appare un grosso nuvolone scuro sopra Taksindu La, che è così imponente da scavalcare di prepotenza la montagna, offuscando l’aria con un velo grigioazzurro. È in arrivo un bel diluvio, quello che le previsioni meteo hanno promesso ore fa. Metto il turbo per scendere gli ultimi 500 metri di quota prima che arrivi il temporale. Il ponte sul fiume si avvicina, si avvicina, eccolo!
Il ponte è cosparso di rami verdi, pieni di fronde appetitose. Infatti alle estremità del ponte ci sono quattro mandriani che stanno conducendo alcuni bovini a Khari Kola. Il bestiame detesta questi ponti traballanti e non ne vuole sapere di passare. Proprio mentre raggiungo la sponda opposta un ragazzo sta cercando di tirare un toro verso il ponte. Resterei volentieri a osservare la tenacia dei due, ma è meglio che vada. A terra trovo una catasta di frasche abbastanza secche per fare un fuoco, così sacrifico due minuti per formare una fascina. Stasera è il momento buono per cucinare di nuovo.
Dopo un’ora di minacce, inizia a piovere sul serio. Mi lancio fuori sentiero per appendere l’amaca e ripararmi sotto il telo, che viene issato in un baleno. È già ora di prepararmi per la notte, a quanto pare, ma intanto mi siedo a osservare la pioggia. Con mio grande disappunto, dopo dieci minuti ha già smesso. Che cosa faccio adesso? L’amaca è molto, molto comoda, ma ogni metro guadagnato oggi è un metro risparmiato domani. Riavvolgo il telo, l’amaca, la corda, chiudo lo zaino e raccolgo la legna: si parte, alla faccia della pigrizia!
È dopo altri cento metri di quota che mi fermo davvero, al riparo di una tettoia che protegge un tavolo da picnic. Mi vesto in fretta perché inizia a fare freschino, sdraiato su una panca ad aspettare che le spalle contratte si rilassino un minimo. Per fortuna sono ripartito, questo tetto solido è eccellente per stare comodamente al riparo dalle intemperie. Sarebbe stato decisamente più difficile laggiù appeso agli alberi, dell’erba alta. Tra l’altro era la stessa zona dove all’andata ho preso due sanguisughe. Sanguisughe?!? Mi rizzo a sedere, scoprendo una macchia di sangue sui pantaloni. Li avevo appena lavati e asciugati. Il buchino tondo sanguina copiosamente e ho la gamba insanguinata. Ne ho un altro piccolo anche sulla caviglia destra e per fortuna che mi sono controllato le gambe anche prima in amaca. Avevo già una sanguisuga sulla scarpa. Una volta ottenuto l’accesso alla fontana dei vicini, posso lavarmi e iniziare a cucinare. È giunto il momento di finire il riso e le lenticchie, questa volta so come fare.
Mentre soffio sul fuoco e mescolo, telefono a destra e a manca, per ore e ore. Finalmente, dopo due settimane di alta montagna, quaggiù c’è campo.
Inevitabilmente, la cena viene pronta tardissimo e inevitabilmente il riso non è cotto alla perfezione, ma molto meglio dell’ultima volta. Il pentolino è colmo, perciò è meglio se finisco di mangiare domani.
Dormo su una panca, avvolto nel sacco a pelo e con tutte le mie cianfrusaglie sparse sui tavoli.

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