Lezione di ieri: valuta se la cima è raggiungibile e poi dimenticala, aspetta di arrivarci.
Lunedì 18/07/2022 Thame (Solukhumbu, Nepal)
Ho dormito come un sasso, svegliarsi sotto il tepore del sole è perfetto per tirare dritto parecchio. Ho le gambe abbastanza tritate, ieri sera non è mancato un crampetto o due. È il caso di fare con calma e scrivere per un paio d’ore, finché la calura diventa eccessiva e mi metto in marcia sotto il sole. Ben presto il cielo si annuvola e la temperatura ritorna sopportabile. Il torrente ha scavato la valle in profondità e il sentiero è costellato di pietre Mani. Si tratta di grossi macigni nei pressi del sentiero, con incise molte preghiere scritte in caratteri sherpa. Sono onnipresenti qui nel parco. Le lettere, simili al sanscrito, sono dipinte di bianco, mentre lo sfondo è verniciato di nero. Ligio alla regola, le supero passando da sinistra, mentre il paesaggio progressivamente si popola di alberi. Con le nuvole del pomeriggio, il paesaggio non è così interessante perciò bado a procedere spedito e a divorare chilometri, finché… “Corpo di mille balene!” Sì, giuro che è la prima esclamazione che mi è venuta in mente, con mia grande soddisfazione. Sul sentiero c’è una piuma color blu elettrico, vagamente iridescente. Finalmente ho una prova tangibile dell’esistenza di quel manigoldo di un fagiano, il simbolo del parco nazionale Sagàrmatha. Quelle bestiacce sono schive e in questa stagione se ne stanno rintanate nei boschi, perciò vederle è un’impresa. È molto più facile durante la stagione degli accoppiamenti, perché sul bianco della neve un fagiano blu fa fatica a nascondersi. Io però sono fortunato, si sa, e quindi mi porto a casa una piuma blu, tiè. Superando qualche tratto di sentiero franato, arrivo infine a Namche e diecimila gradini più giù ritrovo la strada dell’andata, anch’essa in ripida discesa. Se riesco a riguadagnare Jorsallé completo anche oggi una tappa e mezzo.
Le nuvole minacciano pioggia mentre marcio verso il confine del parco e passano alle vie di fatto proprio quando arrivo in vista del bastione di roccia che mi sono lasciato alle spalle molti giorni fa. Il cancello del parco si trova in una fenditura stretta tra il pilastro di pietra e il pendio della montagna. Qui a bassa quota sto sudando, ma piuttosto che inzupparmi fuori risalgo la lunga scalinata, fino alla tettoia oltre la cancellata. Sono arrivato, passando Jorsallé proprio al tramonto.
La pioggia si intensifica rimbombando sul tetto di plastica, così mi accomodo e aspetto, contemplando il plastico del parco. I cani sono sempre qui a ispezionare gli escursionisti di passaggio, ma la mia cena non è certo per loro. Stavolta il riso con olio e latte in polvere è ammorbidito con l’acqua e condito con fragoline di bosco. Queste fragole non sono neanche paragonabili con quelle europee, ma sono una piacevole aggiunta al rancio. Oh, guarda, c’è una presa per ricaricare la power bank! Penso che resterò qui molte ore, per poi partire prima dell’alba lungo il sentiero. Non si può sbagliare strada e domani pomeriggio ed è bene sfruttare le ore senza pioggia.
Mentre scrivo, sopraggiunge un gruppo di giovani armati di chitarra e pallone da pallavolo. Ben presto capisco che sono la guarnigione del cancello del parco. Parlano pochissimo inglese, ma con il poco nepalese che so mi difendo dalla tempesta di domande. Hanno già capito che ho intenzione di ripartire di notte, forse ce l’ho scritto in fronte. Non si può assolutamente, è pericoloso perché ci sono gli animali selvatici. “Che animali pericolosi ci sono, scusate?”
“I cervi.”
“I cervi?”
“Sì sì, i cervi e anche… i panda rossi. Conosci il panda rosso?”
Qui scoppio a ridere perché questo è veramente troppo per la mia faccia di bronzo. Mi immagino bande armate di panda rossi che brutalizzano i turisti ad artigliate per rubare burro di arachidi e barrette di cioccolato. Se riesci a sfuggire ai panda bandidos, ci sono i cervi che ti inseguono per incornarti. O peggio ti saltano addosso dall’alto gridando “Banzai!”
Cerco di far capire che ho intenzione di restare qui a sedere, ma dicono che mi devo trovare un albergo per la notte. Non se ne parla neanche, io campeggio. Non butto via dei soldi in cose inutili come i letti.
Mi propongono di stare nella foresteria, che è fatta di legno e ha una stanza in grado di ospitare una decina di ospiti. Non si tratta di un dormitorio, ci sono solo quattro pareti e il pavimento di legno. L’unica forma di arredamento sono alcuni cartoni di cianfrusaglie e una tavola da kirembót. Io possiedo tutto il necessario per accamparmi, ma non se ne parla neanche. Portano un materasso, un cuscino e una ciabatta per ricaricare le mie batterie. Nonostante asserisca di avere da mangiare, poco dopo entra dalla porta un piattone di riso, zuppa di legumi e uovo fritto, tutto per me. Un uovo!
Mentre ceno, accanto a me si siede Dipes, che ha trentotto anni, due figli ed è il comandante della guarnigione. Non torna a casa da mesi perché la sua famiglia si trova a Nepalganj, ad almeno diecimila buche da qui. Mentre io mangio, lui beve e mi tempesta di domande insieme a uno dei suoi sottoposti. Sta bevendo il solito vino di riso trasparente, tipico di quassù. Finito il primo piatto se ne fa un’altro, con tutti i condimenti necessari. Per mia grande fortuna i nepalesi mangiano una quantità di riso industriale, adesso sono decisamente pieno, posso tornare a Salleri di corsa. Dipes è simpatico e anche un po’ brillo, perciò parla in continuazione e il suo collega cerca di stare serio, ma dentro si sta sbellicando dalle risate. Mi insegna qualche inutile volgarità in nepalese, poi si mette a cantare, mi chiede che cosa mi è rimasto da mangiare. Da ultimo ispeziona il pentolino, preleva con disgusto la fragolina più grossa e la spappola tra le dita. “Yo ramro chaina” (Questo buono non è). Mi spiega che queste fragole sono indigeste e che bisogna buttare via tutto. Io sono decisamente contrario perché ieri ne ho mangiate un treno e sto ancora benissimo. Qui il biologo sono io e decido io.
Dipes è decisamente insoddisfatto delle mie provviste, così si fa portare subito una delle razioni settimanali che ricevono quassù. C’è un pacco di biscotti, insacchettati a sei a sei per massimizzare la plastica. Poi c’è mezzo chilo di un surrogato vegetale del latte in polvere. “Questo è buono, il tuo non è buono.” Ripete lui tutto serio. Stesso discorso per due razioni di muesli, il mio riso tostato non è buono. L’uvetta proprio non gli piace e il mio buon senso mi ha consigliato di lasciare l’olio di girasole là dove si trova. Aggiunge anche una busta di “Tea dost” (Amico del tè, in hindi), che sarebbe latte in polvere, insieme ad una bustina di tè. Ho ancora lo zucchero del Kosovo, quindi quello non serve. Per finire non può mancare qualche barretta al cioccolato e cereali. “È abbastanza, sono a posto, è anche troppo.” Facciamo una videochiamata a casa sua e a casa mia, ma bisogna mettere giù perché Dipes non ha ancora smesso di sorseggiare vino. Insiste e insiste finché accetto di bere un bicchiere, ma piano piano perché sono pieno. Mi abbraccia e inizia a farfugliare qualcosa riguardo al visto dell’Europa e alla lettera di invito. Ho già impegnato la mia camera con Manuj, devo per forza tentennare finché non cambiamo argomento. Ha già accennato tre volte ad andare a dormire, ma siamo ancora qua a parlare e il suo affetto fraterno sta diventando un po’ troppo espansivo. Si ricompone e infine ci auguriamo la buonanotte, chiudo la porta e mi guardo attorno incredulo. Dopo i primi contatti con la polizia nepalese, mai mi sarei aspettato di essere ospitato, sfamato e accudito proprio dall’esercito. Ma poi, di tutte le migliaia di turisti che passano per di qua, quanti sono stati ospiti della guarnigione? Più ci penso più mi rendo conto di quanto sia surreale e anche buffo.
Telefono a casa grazie al wifi del posto di blocco, per spiegare meglio come si è conclusa questa serata piovosa