Lezione di ieri: Gli ometti! Bisogna seguire gli ometti!
14/07/2022 Kala Patthar (Solukhumbu, Nepal)
È giorno e sento delle voci, da lontano mi giunge un “Hello!” Mi scartoccio dal sacco a pelo e sbircio fuori. Sono gli ospiti dell’ostello a Gorack Shep, in marcia verso la cima. Non c’è tempo da perdere, qui il meteo muta ogni minuto e non posso lasciare che vedano un panorama migliore del mio. Siamo qui per un giorno solo, va sfruttato bene. Agguanto il marsupio, la borraccia e parto senza neanche allacciarmi le scarpe. In pochi metri le gambe si ricordano come si fa a camminare, per niente contente di andare lassù. In breve raggiungo i miei compagni di salita, quattro canadesi, e due australiani, accompagnati da una guida nepalese. Facciamo una breve sosta per riprendere fiato. Via di nuovo, qualche altro centinaio di metri e poi pausa. Che fine ha fatto l’acclimatamento? Non ho neanche lo zaino addosso!
Ben presto mi stacco dal gruppo e inizio la mia personale corsa verso la vetta, che più che una corsa è un lento incedere con numerosi intervalli per rifiatare. Kala Patthar è ancora distante e avvolta nella foschia. Dopo circa un’ora arrivo alla meta, distante appena un chilometro e mezzo dall’accampamento. La spedizione austro-canadese è ancora parecchio indietro, così mi arrampico un cima a una roccia a sperare che la nuvola si dissipi.
È questione di minuti, molto presto appare un lago turchese a sinistra, il ghiacciaio in fondo alla valle e le pendici innevate su, su, su fino ad un’altezza incalcolabile. Arriva il sole a scaldarmi e a spazzare via gli ultimi vapori. Resta solo il soffitto blu dell’Himalaya e i suoi giganti di pietra e ghiaccio. Qui di fronte c’è la prima delle cime Nuptse, interamente bianca, e poco a sinistra la vetta nera e bianca di sua maestà l’Everest, con un pennacchio bianco sulla testa. Difficile credere che ci siano ancora tre chilometri di dislivello tra qui e la cima dell’Everest. È tutto così fuori scala che valutare le distanze è impossibile.
Mentre arrivano anche gli altri la visuale si allarga e ora si vede proprio tutto quanto, intorno. Kala Patthar, a 5657 metri di quota, non è propriamente una vetta, ma piuttosto una sella, prima che la cresta rocciosa si copra di ghiaccio e salga fino a settemila metri e più. Il meteo di stamattina è assurdo, non so neanche perché mi sono preoccupato di controllare i trekking migliori nel mese del monsone. A dar retta a quello che ho letto, gli unici posti asciutti sono l’alta valle del Dolpo e del Mustang. E questo cielo? Da dove spuntano questo cielo e questo paesaggio magnifici? È incredibile, faccio due chiacchiere con i miei compagni di salita e resto lassù, mentre loro se ne vanno a fare colazione. A che serve la colazione?
Ora fa caldo, inizio a levarmi la giacca perché è un po’ eccessiva. Con tutta la strada che ho fatto per arrivare quassù, sicuramente ci resto qualche ora. È giunto il momento di lasciare qui una pietra iraniana, una delle due che avevo raccolto al lago Urmia per carteggiare l’interno della coppa di legno della Georgia. È il caso di sbarazzarmene lasciandola qua. Con il pennarello che mi regalò Farzad a Tabriz, ci scrivo sopra “اورمیه ایران” (Urmia, Iran), Giro del Mondo ’21-’22, Palla di Fuoco. Palla di Fuoco sarebbe il gruppo di amici delle superiori, capita spesso che lasciamo una firma collettiva sui registri di vetta in montagna. La pietra ora si trova nel punto più alto di Kala Patthar in una piccola conca protetta da un sasso con una croce sopra. Che bello qua intorno, è quasi come se tutto fosse immobile.
Vorrei meravigliarmi dell’atmosfera di calma immutabile che regna quassù, ma non è così. Uno dei canadesi è già stato qui vent’anni fa e mi racconta che allora il ghiacciaio Khumbu era tutto bianco, a perdita d’occhio. Ora il ghiaccio vivo raggiunge soltanto i piedi dell’Everest, sommerso di pietre per i successivi dodici chilometri. Stanotte a 5300 metri abbiamo sfiorato lo zero, infatti crolli dei ghiacciai sul versante opposto si sono susseguiti senza sosta. La morena stessa si sta svuotando, lasciando solo una scia di macerie. Il lago qui accanto è decisamente recente, si riconosce bene la linea di abrasione che marcata dal ghiacciaio preesistente, rivolto a Sudest. Dietro di me, altri laghi turchesi, impronte di ghiacciai scomparsi e vegetazione che avanza. Rummble! Giù un altro pezzo di ghiacciaio. Ma che cosa stiamo facendo! Basta, bisogna che vada via perché a stare qui mi viene il magone. Però prima di scendere mi allaccio le scarpe, magari. Scendere è semplice ma il sentiero ripido va affrontato a passettini, meglio guardare solo a terra perché la fine è sempre lontana.
Superato un momento di leggero panico irrazionale perché la tenda sembra scomparsa, scendo ancora di più e la ritrovo ad aspettarmi. Quasi nessuno sa che sono qui, chi mai andrebbe in cerca di roba da rubare a questa quota? Entrato in tenda, mi sdraio sul fondo della tenda a riposare, al tepore del sole. La tenda però sta diventando un forno e poi al sole il telo si rovina, orsù mettiamo via tutto. Do un’occhiata tutto attorno con il binocolo e mi sdraio di nuovo sul prato, scaldato dal sole e raffreddato dal vento. Potrei stare qui così una settimana.
Scendo a Gorack Shep, preparo un’altra razione di rancio del portatore con abbondante latte in polvere e già che ci sono mi avvio verso il Campo Base, che è qui a due passi. Chi trovo sulla via del campo base? Chung Yang, il coreano incontrato a Chukkung. Lui viaggia leggero e spedito, visto che rientra dal Campo Base mi dà qualche dritta sulla deviazione da prendere. Qui il sentiero è in continuo mutamento a seconda di come cedono le creste di ghiaccio, l’unica traccia affidabile è lo sterco degli animali da soma. Ci diamo appuntamento a Dzonglha e proseguo verso la seconda tappa di oggi, che è vicinissima ma ancora le tende non si vedono. Seguo la traccia, passo accanto a una crepa e sento un plunf! Proprio così, un sasso si è infilato nella crepa e ha fatto plunf, diversi metri sotto di me. Con una lunga falcata mi tolgo dal ponte di ghiaccio, trovandomi proprio davanti al Campo Base. Il Campo Base dell’Everest è un sasso. Come ho fatto a non pensarci, certo! Con il caldo che fa in questa stagione è impossibile scalare un ghiacciaio in sicurezza, anche di notte. Perciò tutto quello che resta è un macigno con scritto Everest Base Camp, dalla forma che ricorda una scarpetta da arrampicata. Il secondo motivo dell’assenza di vita umana è che l’anno prossimo il campo base verrà trasferito più su, perché qui non c’è più spazio e il macigno stesso si trova stretto tra due voragini di ghiaccio. Come dicevo stamattina, il lato positivo di tutto questo è che i miei figli potranno andare in cima all’Everest in ciabatte. Forse quando si sarà sciolto tutto capiranno anche quelli che ancora non capiscono.
È già metà pomeriggio e le nuvole ritornano alla riscossa. È già da un’ora che mi sfilano sulla testa e non capisco se pioverà tra cinque minuti o tra cinque ore. Ora che ho raggiunto il punto più distante è facile, basta mettere un passo avanti all’altro fino a Salleri. Gorack Shep, Lobuche, Dzonglha, visti sulla mappa sono chilometri e chilometri di falso piano in discesa. Mi lancio lentamente verso la terza tappa di oggi, deciso ad arrivarci entro sera. Poco dopo Lobuche le nuvole calano fino al suolo, ma ormai ho passato l’ultimo bivio e il sentiero taglia la brughiera a metà pendio, così posso percorrerlo a lunghe falcate senza sudare troppo. Intanto cala la sera e il vento porta qualche spruzzata di pioggia, a tratti.
Quando avvisto Dzonglha ormai non ci si vede più niente, picchetto la tenda nella penombra e entro in tenda, all’asciutto. Sono 400 metri più giù di ieri e la temperatura è ottima, tantopiù che questa valle stretta evidentemente blocca il vento.
Il prato è molto più soffice di ieri e questa notte si prospetta decisamente migliore.