Giorno 11 – Il maniero

La scrittura va pianissimo, ma è perché sto costruendo una barca a Pulau Perenthiane Kecil. Nelle poche ore in cui non costruisco e non cucino, dormo.
Lezione di ieri: Non bisogna prendersela, non tutti i popoli amani gli addii.
Martedì 12/07/2022 Chukkung (Solukhumbu, Nepal)
Mi spno svegliato prima dell’alba, ma poi rifacendo lo zaino a modo il tempo è volato. Esco insieme ai proprietari, che oggi lasciano Chukkung fuori servizio per partecipare all’ultimo giorno della preghiera annuale a Pangboche. Nonostante siano solo le sette di mattina, si presenta in paese un escursionista sudcoreano. Evidentemente è partito prestissimo, perché Dingboche non è dietro l’angolo. Non credo alle mie orecchie quando dice di voler seguire il trekking dei tre passi, non sono l’unico allora!
Farà un’escursione qui vicino e stanotte si fermerà qui, per affrontare il passo domani. Il mio collega si chiama Chung Yang, ha 32 anni e di professione fa il freelance-qualcosa. Riparte poco dopo e così faccio anch’io. Io invece ho già deciso di continuare con il passo già oggi. Dopo aver conteggiato e riconteggiato i giorni che ho a disposizione, non ho molto margine di sicurezza ed è bene guadagnare un giorno o due. Mingma era d’accordo con me che non sto facendo una pazzia, posto che le mie condizioni fisiche si mantengano buone. Diciamo che ho concentrato l’acclimatamento a Pangboche, sperando che funzionasse. Tutto il fiato che avevo ieri a salire mi dice che probabilmente ha funzionato.
Salendo, il mio piano di salire sfruttando l’aria tersa della mattina è già andato a rotoli, perché le nuvole basse non accennano a spostarsi, anzi ormai ci sono entrato dentro. Incontro un pastore di yak, ma non vedo gli yak. Mi tornano in mente i racconti di Lee, della nebbia e del pericolo di rimanere senza GPS nella zona del passo. Fin qui il sentiero è talmente ovvio che non vedo proprio che cosa me ne potrei fare della localizzazione GPS. Anzi, facciamo che provo a fare a meno della mappa, vediamo se la traccia è sufficiente a raggiungere il rifugio senza perdersi. Per spiegare meglio la semplicità del sentiero con un video e un disegno nella sabbia. “Prendi la destra, aggiri il pendio, costeggi il torrente, risali il promontorio tenendo la destra, attaversi il pianoro in cima allo scalone e superati i laghetti sei a… una stella alpina!” Mi tocca rifare il video, sarà un secolo che non vedo una stella alpina. Come è ovvio, questei fiori sono più probabilmente stelle himalayane, ma ai miei occhi la differenza è irrilevante.
Continuo piano piano la salita, trovando molte impronte di yak, ma neanche un quadrupede. Sbucano fuori all’improvviso, accompagnati dai fischi del pastore, e scendono a precipizio verso il tratto di sentiero dove sono appena passato. Io intanto mi trovo poco più su, seduto a riposare perché a cinquemila metri l’acclimatamento di Pangboche non basta più. Fino in cima ci arrivo senza problemi, ma è meglio salire a piccoli tratti. Approfitto del fiato corto per studiare le forme dei blocchi di ghiaccio appesi alle creste di là dalla valle, praticamente delle piramidi di ghiaccio appoggiate sul niente.
Salendo, il cielo si apre via via, mentre mi fermo qua e là a raccogliere una piccola parte di quell’immondizia che rende famose le vette himalayane. Con tutto lo schifo raccolto sul K2 hanno creato un’installazione artistica, mi pare che fosse un girotondo. La scarpata che mi aspetta ora va affrontata a tornanti stretti, e già scorgo fuori sentiero un brandello di plastica azzurro come il cielo. No, aspetta, non è plastica, è un gruppo di grossi fiori azzurri, ce n’è un altro là è un altro là. Invece di incrementare la mia provvista di plastica, mi basta avvicinarmi e scattare una foto, con grande sollievo. Poco oltre, noto un movimento su una cornice di roccia a qualche centinaio di metri. Non vedrò mai e poi mai un leopardo delle nevi, ma questa è comunque fauna selvatica di grossa taglia. Si tratta di thar himalayani, dei grossi caproni con il manto color antracite come le rocce, un po’ sbrindellato perché stanno perdendo il manto invernale come gli yak. Mentre salgo mi notano e si spostano a brucare più su.
Io continuo a salire per tutta la mattina fino a raggiungere il gruppo di laghetti, proprio alla base del passo. Eccolo lì il terribile Kongma La, adornato di bandierine colorate che si stagliano su uno spicchio di cielo blu. In alto, a destra del passo, ci sono pochi cubetti bianchi disposti su due alti gradoni, che alimentano il sistema di laghi. Un miserabile mucchietto di ghiaccio come quello non basterebbe neanche a riempire di nuovo il lago principale, dubito che durerà ancora a lungo. Mi fermo in riva al lago turchese, seduto tra le pile di ciottoli costruite sulla riva. Farei un tuffo, ma quassù da solo non mi fido tanto, oltre al fatto che il sole si fa vedere solo a tratti. Però è un peccato lasciare un posto meraviglioso come questo, come si fa a non fare tappa qui? Per dirla tutta, qui in riva al lago ci starebbe proprio bene un piccolo riparo di sasso, fatto di pietre grosse grosse in modo da mimetizzarsi con il paesaggio. Solo che è troppo tardi, due ore non bastano a costruire qualcosa di così grosso, servirebbe almeno una giornata. Si potrebbe sfruttare un macigno come parete e accelerare i lavori, ma questo riduce le possibilità ad una sola, proprio dall’altra parte del lago. Meglio effettuare un sopralluogo prima di montarsi la testa con idee megalomani.
Prendo la via breve e scoscesa per trovarmi bloccato su una stretta cornice scivolosa, a poca distanza dall’acqua. Dopo aver valutato attentamente dove mettere il prossimo passo, decido semplicemente di levarmi le scarpe e saltare nell’acqua bassa, chiedendomi perché non ci ho pensato prima. Il macigno non è esattamente come speravo, ma ha del potenziale. In questo punto è proprio affacciato sul lago e finirebbe in tutte le foto scattate dall’altra sponda. Inoltre in questo punto dovrebbe essere protetto dalle valanghe e anche dalle cadute di sassi, che si susseguono da quando sono arrivato. Il problema è che sono già le 14 e ci sono da sgomberare un bel po’ di sassi prima di iniziare a costruire. Si prospetta molto lavoro, meglio lasciar perdere e scendere. Cerco di raccontarmi questa storia e spingo i piedi verso la retta via, lontano dal macigno, per quasi venti metri. Ma ormai la mia testa ha già scritto il titolo di questa pagina di diario intitolata “Il Maniero” e in realtà quello che si può fare in una giornata si può terminare anche in mezza. Appoggio il binocolo e mi metto subito all’opera. Forse è meglio se porto qui anche lo zaino.
Sgomberare il terreno dalle rocce sembra semplice, invece ce ne sono un paio che non vogliono muoversi. Inizio a costruire il muro con dei blocchi che non riesco nemmeno a sollevare, rotolano in posizione. Ciò che rende così evidenti quei piccoli ripari di sassi in montagna è il numero di pietruzze in bilico le une sulle altre, certamente di fattura umana. La mia speranza è che le pietre grosse siano più mimetiche, perché un edificio costruito quassù starebbe proprio male. Mentre sballotto le rocce mi viene da pensare che forse questo non è esattamente quello che le autorità del parco vorrebbero. Non si può neanche spezzare un rametto per accendersi il fuoco, forse questi metri quadri di rocce smosse sarebbero disapprovati. Ormai ho iniziato, ora il gioco è ricomporre le pietre in modo che non si veda niente. Guardo il disastro combinato fin qui e si riaccende la speranza di levare quel masso dal fondo del riparo, per fare spazio e dover costruire meno. Non riuscivo a smuoverla da solo, ma poco fa è venuto Archimede e mi ha portato una leva. Con una barra di pietra lunga un metro e spessa quattro dita si riesce a fare molto. Basta trascinarla nel posto giusto. Con il mio nuovo strumento riesco a incuneare delle rocce sotto il masso, ma le speranze di estrarlo sono vane, dopo più di un’ora ci rinuncio del tutto. Ora però ha cambiato posizione e ha una faccia in orizzontale, perfetta come giaciglio. Se riesco a sollevare e ruotare quel lastrone ci viene un posto letto. Tira e spingi e tira e spingi, cinque centimetri alla volta il lastrone si sposta di un metro e più, andando a incastrarsi perfettamente con l’altro. Aggiungo qualche altro mattone al mio muro a secco.
Prima della parte facile, cioè alzare il muro, resta l’ultima fatica. Bisognerebbe far scivolare sul fondo della buca un lastrone ondulato che da solo costituisce un posto letto. Se riesco a non spezzarlo, dovrebbe incastrarsi sul fondo e riempirlo. Ooh issa! Cinque centimetri! Ooh issaa! Due centimetri! Il primo metro è fatto, tira tira! Niente da fare, non si muove più. Riprendendo fiato più volte, provo ripetutamente a ruotarlo a destra e sinistra perché superi lo scalino. Provo così tanto che alla fine mi schiaccio le dita tra le rocce e decido che i tentativi sono finiti.
La lastra è così spessa che servono molte pietrate per spezzarla, dopodiché i pezzi sono facili da maneggiare e incastrare sul fondo del riparo. Qualche pietra in più permette di chiudere ogni apertura rimanente con il telo blu.
Fa già buio, ma il primo riparo fatto con le mie mani è soddisfacente. Ecco qua il mio maniero, realizzato in mezza giornata. Me lo ero immaginato più bello, ma almeno dovrebbe essere funzionale.
Sguscio dentro cercando una sistemazione comoda, che dopo tanto lavoro non è difficile come può sembrare. L’importante è usare un telo, altrimenti domattina mi troverò ricoperto di paillettes di muscovite. Per essere onesti, questo giaciglio di pietra è più ergonomico del previsto, ma risulta un po’ freddo. Non si può avere tutto a 5400 metri, è già tanto non avere il mal di montagna.
Esausto come sono, scrivere è difficile, ma prendere sonno richiede meno sforzo, tra le mura del mio maniero.

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