Giorno 7 – Fffunghiiiii

Lezione di ieri: Per scavalcare valli e montagne con molto peso, la strategia è pause brevi e frequenti, senza neanche togliersi lo zaino.
Venerdì 08/07/2022 Deboche (Solukhumbu, Nepal)
Niente tagliagole stanotte, tanto che ho dormito fino alle 7:30 e non ce la farò mai a ripartire prima di Rebecca. D’altra parte lasciare tutto incustodito per informarla che non mi hanno derubato mi pare poco razionale. Se mi fosse capitato qualcosa lei lo verrebbe a sapere molto presto, perciò se non ha notizie significa che sto bene.
È dura riempire lo zaino qui a 3700 metri, meno male che c’è la corda dell’amaca su cui accasciarmi nelle pause dal lavoro febbrile. All’alba delle nove sono pronto e si riparte nella bella mattina di sole, fermandomi un chilometro dopo a preparare il rancio del portatore. Infatti bisogna sapere che in alta stagione il sentiero per l’EBC (Everest Base Camp) è percorso da una marea di camminatori. Ci sono europei, americani, indiani, cinesi e sudcoreani, che portano con se un fornello a gas per cuocere i noodles istantanei marchio Ramba. Ogni confezione monoporzione contiene i noodles, un pacchetto bianco di brodo in polvere e uno trasparente di peperoncino. I primi sono abbastanza radi, ma i sacchettini piccoli sono sparsi a tappeto, anche lontano dai punti di sosta, come se la gente mangiasse brodoin polvere al posto delle caramelle. A proposito di caramelle, i pacchettini azzurri delle Fresco sono altrettanto ubiquitari. Ma chi sono i maiali che lasciano in giro questo schifo, i sino-coreani o gli indiani? Propenderei per i secondi, anche se gli indiani a cui piace camminare sono troppo pochi per giustificare tutti questi noodles. Chiederò ad Arjun quando torno.
Dicevo, benché tutti desiderino insaporire il brodo, ben pochi amano il piccante, così i pacchetti di peperoncino sono per lo più chiusi e nei giorni scorsi ne avevo già raccolti un paio, integri. Quindi: riso tostato, olio di soia, peperoncino, un po’ di cumino e latte in polvere per aggiungere proteine e nutrimento. Il sapore non c’entra niente con quello che mi ha offerto ieri Rashdam, ma quello che conta è il concetto. Questo in confronto non è un granché, ma ha il vantaggio di essere nutriente, perché quella roba che mangiava Rashdam era l’equivalente nutrizionale dei popcorn sconditi.
Mentre mi riposo sopraggiunge un escursionista indiano di nome Govind, che è stato al campo base e ieri sera si è fermato a Pangboche, dove si sta preparando una festa per i prossimi giorni. È una festa molto speciale, si svolge solo una volta ogni diciotto anni. Nell’ostello di Govind, ieri sera, si sono radunati almeno quaranta paesani, tutti nel salone a festeggiare e a bere un alcolico fatto con il riso. Mi mostra un video in cui sono tutti abbaracciati in cerchio, ondeggiando a tempo di musica. “Devi assolutamente fermarti là perché domani sera inizierà la festa vera e propria, con anche la cena gratis!” Ormai le ha provate tutte per convincermi, ma io sono ancora dubbioso. Questa strategia di sfruttare i giorni di riposo e acclimatamento per dimezzare le tappe mi sta piacendo, inoltre concedermi il lusso di fermarmi da qualche parte vuol dire ridurre lo scarso margine di rientro che ho. Sono venuto in autobus, ma conto di ritornare in autostop. A forza di insistere, mi pare di capire da Govind che ci sarà una piccola festa anche stasera.
Risolto il nodo, ci scambiamo un po’ di pareri e racconti su questo meraviglioso Himalaya, che per me balena a tratti là in fondo alla valle. Dopo più chiacchiere del previsto Govind riparte e io mangio qualche altra cucchiaiata di riso tostato.
Il cammino per Pangboche (Pangbogé) non è lungo, ma ben presto il sole si annuvola, alleviando la calura. Non solo, le nuvole calano e calano fino a portare la foschia a livello del suolo. Supero un portale e salgo verso il tempio di Pangboche, zigzagando tra i massi istoriati di preghiere e le aiuole bordate di ciottoli. Descritto così sembra un ordinato giardino zen, in realtà è caotico come la natura lo ha fatto, nessuno può spostare quei macigni. Raggiunta una grossa fonte, ne approfitto per lavare una maglietta e per darmi una rinfrescata. Di lavare i capelli con questa umidità non se ne parla, li terrò così. Raggiungo il tempio e mi siedo di fronte all’ingresso, appendendo la maglietta ad asciugare. Non so perché la gente del mondo trova buffo che usi il bastone come stenditoio, incastrandolo nei muri a secco.
Mi siedo lì fuori a riposare e osservare il traffico tra la cucina e il tempio, dove stanno affluendo innumerevoli termos di tè, gli stessi che ho visto in questi giorni. Qui di tè se ne beve una vagonata, perciò i termos sono tre o quattro volte più grandi dei nostri soliti termos da un litro e mezzo. A forza di passarmi davanti, una delle donne mi offre una tazza di tè, prontamente accettata. Essendo abituato a mangiare solo cibo a temperatura ambiente da una settimana, un tè caldo è un regalo magnifico. Intanto c’è un catino d’acqua che va e viene dalla cucina al tempio, con delle palline di un impasto colorato appiccicate sul bordo. A che cosa servirà?
Inizia a piovere, così mi piazzo al riparo a scrivere un po’. A quanto mi hanno detto non ci sono problemi se stanotte campeggio tra gli alberi qua sopra. Appena smette scendo nella parte bassa del paese, cercando la festa di cui parlava Govind. Nessuno ne sa qualcosa, tantopiù che la maggior parte degli alberghi è chiusa a causa della bassa stagione. Parlo con la proprietaria di uno di questi, che mi conduce ad un prato già bello fradicio, in c ui posso campeggiare. No grazie, vado a parcheggiarmi sotto un portico aspettando che la pioggia finisca, così poi ritornerò su ad accamparmi definitivamente.
Prima faccio un giro nei pressi di un tendone giallo montato in un giardino, dove sembra che si stia preparando qualcosa di grosso.
Qui c’è Ram, uno di coloro che hanno organizzato la festa di domani, il quale mi ripete che la festa inizierà domani verso le nove. Mi concede la password del wifi e mi invita a sedermi un momento al coperto. Accanto a me c’è un uomo, tanto magro quanto Ram è tondo, che sta guardando una partita di calcio sul cellulare. Thassi Lama ha quasi cinquant’anni ed è originario del Tibet, dal quale è scappato quando aveva dodici anni. La storia sembra interessante e mi faccio raccontare la vicenda.
Innanzitutto, bisogna sapere che Thassi Lama abitava a tre o quattro giorni di cammino dalla scuola più vicina. All’epoca dell’invasione del Tibet, il governo cinese dichiarò che avrebbe comunque insegnato nelle scuole la lingua tibetana e la religione buddista. Tuttavia, tornando a scuola gli studenti non trovarono niente di tutto questo. Per questa ragione, il maestro una mattina propose agli studenti di scappare in India. Thassi Lama accettò insieme agli altri così attraversarono il confine in segreto e lui non rimise piede in Tibet per molti anni, tutt’oggi non è mai tornato nel proprio paese, sarebbe troppo pericoloso per lui. “E la tua famiglia?” Niente, lui se ne è andato e per anni non ha avuto modo di scrivere ai familiari, se ne è andato e basta perché è così che andava in Tibet. Non si poteva preparare la partenza come ho fatto io. Lui ride, ride spesso, e mi spiega che i buddisti scherzano continuamente perché ritengono che il riso sia la medicina migliore, nel senso che uno stato d’animo positivo e gioioso predispone al benessere o alla guarigione.
Mentre parliamo il mio stato d’animo sta facendo dei salti alti così perché Ram mi ha fatto portare un piatto di chapati appena preparato, con funghi freschi e verdure cotti in padella. Finito il primo piatto, me ne ha portato un altro po’. Io non mangio funghi da quando preparai le tagliatelle ai funghi poco dopo Natale, a casa di Sam a Istanbul. Questi però non sono insulsi champignon, sono dei signori funghi di montagna coltivati da Madre Natura in persona, insieme alle verdure di questi campicelli minuscoli e al sale, quella sostanza di cui ho dimenticato l’uso. Strappo il chapati a pezzettini minuscoli per gustare piano piano questa bontà, sorseggiando la tazza di tè caldo che mi hanno servito.
Ora è il caso che vada, saluto il mio buon amico e gli domando il nome, perché in verità non gliel’ho ancora chiesto. “Me lo sono dimenticato” risponde lui, e ride. “Puoi chiamarmi Thassi Lama.”
Ringrazio e imbocco un sentiero ripido che secondo me dovrebbe portarmi agli alberi che ho visto prima. Intanto ripenso a questo Thassi Lama che si è dimenticato il proprio nome, fino a capire! È buddista, perciò colui che ho incontrato non è che l’ultima reincarnazione di un’anima che ha dimenticato il proprio nome originario. Scherzava, sì, ma non del tutto.
Il sentiero che ho preso comunque non è un sentiero, ma spostandomi a sinistra ritrovo la parte alta del paese, nonostante la foschia. Nella macchia di alberi trovo due alberi adeguati e mentre cala il buio installo il giaciglio, con sacco a pelo e tetto anti pioggia.
Nonostante tutta la salita di questi giorni e tutte le scalate degli anni passati, secondo il GPS non sono ancora arrivato a quattromila metri, qui mi trovo a 3996, manca tanto cosi!
Nonostante sia calato il buio da ore e siano già le undici, i cani neri del paese continuano ad abbaiare da almeno un’ora, senza sosta. È troppo, bisogna che mi sfoghi con qualcuno là a casa, perché qui sono solo. “Ma in dodicimila anni di selezione artificiale, nessuno ha mai pensato a selezionare dei cani che facciano un verso vagamente armonico? Porco cane. In alternativa andrebbero bene anche dei cani intelligenti che latrino le loro fesserie durante il giorno, invece di importunare tutto il creato quando sta cercando di dormire.”
Appena invio il messaggio, quei dementi finalmente la smettono.

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