Phoolkumar e Pùnita

Lezione di ieri: non complicarti la vita sulla base di una supposizione senza fondamento.
Martedì 28/06/2022 Kohalpur (Nepal)
La calura si è placata, ho dormito di sasso tutta la notte. Ora però bisogna andare perché devo trovare una SIM della Nepal Telecom, che a quanto ho letto offre la copertura migliore nelle zone remote. Mentre slego tutto c’è un nugolo di zanzare attorno allo zaino, sono cascate nella trappola. Io e Hans ormai abbiamo lo stesso odore e ci aiutiamo a vicenda. Lui le tiene occupate mentre io mi preparo, poi scappiamo verso la strada. Ora che è giorno, mi fermo a fotografare le enormi chiocciole nepalesi di ieri sera, cercherò di capire che cosa sono al momento di scrivere il giornale di viaggio.

Inizio della rubrica dell’ecologo
I molluschi che ho visto appartengoni alla specie Lissachatina fulica, più famosa come lumaca gigante africana. Africana? Ma come? Ebbene no, non è nepalese, ed è così famosa che non l’ho mai sentita nominare, anche se dovrei conoscerla. Per i propri meriti è annoverata tra le prime cento specie più invasive, al pari dei ratti o delle cimici asiatiche. La differenza è che le chiocciole sono carine e nessuno se la prende con loro. Questa specie è stata rilasciata accidentalmente in molti paesi del mondo, diffondendosi specialmente nelle regioni subtropicali. È una specie prevalentemente erbivora, priva di predatori nei luoghi in cui viene introdotta. Gli esemplari che ho visto io erano ancora giovani, perché da adulti avranno un conchiglia di una ventina di centimetri. È per questo che si chiama gigante ed è per questo che le è vietato visitare gli Stati Uniti. Tende a riprodursi senza controllo e a causare gravi danni all’agricoltura. Per non farsi mancare proprio niente, è anche il vettore di diversi parassiti umani. In Florida è stata eradicata l’anno scorso, salvo essere stata segnalata nuovamente il mese scorso. Non è semplice sbarazzarsi di un animale che tende a sotterrarsi tra le foglie morte e che in caso di siccità può sopravvivere per anni. Nelle Hawaii si è cercato di debellarla introducendo un’altra chiocciola, nota per essere un vorace predatore. Andava di moda a quei tempi saltare la fase di sperimentazione. Non è che per caso la chiocciola predatrice ha preferito nutrirsi delle piccole chiocciole endemiche? Proprio così, invece di scalfire la prolificità delle chiocciole invasive, si sono estinte centocinquanta specie su duecento specie autoctone. Quelle rimaste non se la passano benissimo, vivono all’interno di recinti pattugliati costantemente.
Così queste chiocciole così carine sono di fatto un flagello delle regioni in cui vengono introdotte. Sono commestibili, ma è consigliabile cuocerle molto bene. A saperlo mi sarei preparato una zuppa, ma tanto sono piuttosto sicuro che le rivedrò altrove.
Fine della rubrica

Non appena tornato in strada, sgrano gli occhi per la sorpresa. Sono le otto e la strada è praticamente vuota. Ci sono due auto, quattro bici e alcuni studenti a piedi. Per il resto la strada è vuota, è incredibile, non ero preparato. La densità abitativa in Nepal è meno della metà dell’India e la differenza è lampante. Inoltre i salari in Nepal sono nettamente più bassi, ma la benzina ha lo stesso prezzo. L’unica soluzione possibile è fare a meno della macchina. Prima di spostarmi, meglio mangiare i manghi prima che si spappolino.
A quanto risulta dalle mie indagini in hindi, l’ufficio della Nepal telecom aprirà alle dieci, perciò nel frattempo posso cercare un bancomat in cui prelevare senza commissioni. Ne provo metà e sto già grondando sudore, perché il cielo promette pioggia, ma non piove. C’è solo umidità, perciò mi fermo a sciacquare la maglia ad una fontana e sciacquo anche me, perché faccio schifo. I negozi stanno aprendo e Suraj, mi invita a sedermi lì da lui. Intanto che mi riposo facciamo due chiacchiere su di lui che è già sposato, con una figlia, e su di me che ho quasi 26 anni e devo ancora incominciare.
Appena mi sento pronto, parto per il secondo giro dei bancomat, giungendo alla conclusione che non c’è scampo, quelle cinquecento rupie di commissione le devp pagare. Ci sono più di venti banche diverse a Kohalpur, direi che il caso è chiuso.
Ora piove, così aspetto che arrivano le dieci nei pressi del wifi di cui ho già chiesto la password, in una copisteria.
La procedura per ottenere la SIM è oltremodo complicata, perché ci vogliono i dati del passaporto, le impronte digitali, una fotocopia del passaporto, due fototessere, e l’indirizzo di residenza in Italia e in Nepal. I requisiti non si possono sapere tutti subito però, le informazioni vanno sbloccate come in un videogioco a livelli. Ogni volta ci si presenta allo sportello per sapere che cosa manca. Ah, bisogna anche portare i soldi giusti, non danno resto qui. Quando due ore dopo riesco a ottenere questa maledetta SIM, ormai hanno abusato a tal punto della mia pazienza che in cambio di un sorriso gli arriva indietro solo un’occhiataccia. Sono passate due ore e devo ancora ricaricare la SIM e sperare che si attivi. Nel frattempo Phorev e Roben sono già ripartiti per Kathmandu, avendo appurato che il permesso che hanno è valido in tutto il Nepal, alla faccia di quel bellimbusto di ieri notte. Anche loro sono entusiasti della burocrazia nepalese. L’unica utilità della Nepal telecom l’ho trovata nella pila di cartoni da buttare, puliti e perfetti.
È ora di ripartire verso Kathmandu, che è ancora a centinaia di chilometri di distanza. La strada non promette bene, perché le auto private scarseggiano e anche in camion non sono moltissimi. Ci sono invece numerosi tuktuk, perché chi non ha la macchina usa quelli per spostarsi sulle medie distanze. Neanche a farlo apposta, appena alzo il cartellosi ferma una macchina. Ci sono tre uomini a bordo, tra i quali Avi, quello seduto dietro accanto a me, parla inglese ed è a conoscenza del concetto di autostop. Per mia grande sfortuna non sta andando lontano, ma si sono fermati perché mi possono portare in un punto più strategico, cioè la transenna del prossimo posto di blocco.
Mi piange il cuore a lasciarli andare, unici in questa landa di ignoranti a comprendere che non voglio essere accompagnato alla fermata dell’autobus. Come da copione, infatti, appena scendo si avvicina un passante per offrirmi la propria assistenza non richiesta. Ne arriva un altro e infine è il turno di un uomo in divisa militare che cin molto garbo intima: “Devi prendere un autobus.” “No che non lo prendo un autobus.” In quell’istante si ferma un camion, chiedo il permesso all’autista e mi isso a bordo, salutando il mio carissimo amico in divisa dal finestino.
Sul camion parlo con Dob, l’autista invece è impegnato a schivare le buche. Facciamo giusto due chiacchiere in hindi e poi guardo fuori, molto a lungo perché Lamahi è molto lontana e il camion è molto lento, non ci si può aspettare la velocità, solo la costanza. Alcune ore dopo arriviamo a Lamahi, dove il camion parcheggia e immediatamente inizia a diluviare. Ci ripariamo tutti nella casetta dei gestori del parcheggio, così preparo il cartello con le prossime tre destinazioni, sotto gli sguardi stupiti dei presenti. Poco dopo smette di piovere ed esco dal rifugio per proseguire, ma con scarsa fortuna. Anche se sono qui solo soletto tra la strada e la giungla, tutti quanti tirano dritto. Si ferma solo una macchina che sta arrivando a fucilata, così gli dico che vado nella prossima città e poi a Butwal. Il passeggero mi fa segno di no, loro vanno a Kathmandu, e ripartono. Allargo le braccia perché giuro che non ho capito. Non si possono fermare a farmi scendere a Butwal? Che senso ha?
Nel frattempo ci hanno ripensato e tornano indietro, hanno capito che vado a Kathmandu anche io e salgo a bordo. Ripartiamo a tavoletta su questo SUV nero, praticamente sdraiati sui sedili per attutire i sobbalzi di queste povere sospensioni maltrattate. È scomodo, ma almeno arriveremo in un baleno, appena sei ore. Dopo venti minuti quello seduto accanto a me inizia a parlare di soldi, non parla un accidente di hindi né di inglese, ma almeno sa dire diecimila rupie. “Diecimila rupie?! Ma sei serio?” Abbiamo bisogno di un traduttore, ma dopo le quattro ore previste la mia SIM non dà segni di vita. Uso il suo telefono e faticosamente riesco a spiegare il concetto che a queste condizioni è meglio che mi facciano scendere e che trovi un’altra macchina.
Così mi fanno scendere, in un microscopico paese tra i tornanti di montagna. Mi siedo a pelare i due manghi rimasti, tanto in un posto come questo trovare un passaggio deve essere molto facile. Tutto cambia bruscamente appena capisco che il camion di fronte a me sta per ripartire. Ripongo il secondo mango mezzo pelato, assicurandomi una corsa fino a valle. È un vero peccato andarsene da qui, perché il paesaggio è incredibile. È un susseguirsi di valli ripide e creste coperte di dense foreste, immerse in quella nebbiolina he si vede nelle sequenze di apertura dei documentari sulle foreste pluviali. Secondo me, per girare quei filmati lì in Nepal si fermano in un punto a caso durante il viaggio e filmano per un minuto o due. Non si può sbagliare, è così da chilometri e chilometri.
Felice di essere di nuovo in pista riparto, ancora ignaro del contenuto del camion. “Come vi chiamate?” “Vishnu, e lui è Rajkumar.” “Che cosa c’è qui dentro?” Vishnu parla inglese, ma non gli viene in mente la parola, così cerca di ricordarsi cosa c’è scritto sui sacchi. “Cemento!”
Ecco, molto bene, ora si spiega perché andiamo così piano e perché arriveremo tra una vita a Dhankhola. Stiamo andando così piano che farei prima a scendere e andare a piedi, letteralmente. Ben presto arriva la discesa, così ci lanciamo verso la valle, divorando quello che resta dell’asfalto. Infatti l’autostrada quassù è asfaltata a tratti, perciò è necessario rallentare in continuazione e la lancetta del tachimetro ondeggia faticosamente verso il 20, ma senza mai raggiungerlo davvero. Nel frattempo io e Vishnu chiacchieriamo, un po’ in hindi e molto in inglese, perché lui parla tre lingue e ha appena mandato all’aria i miei pregiudizi. Non è che se guidi un camion vetusto allora sei meno istruito di tutti e tre gli occupanti della macchina moderna e costosa da cui sono appena sceso. In questo caso è tutto il contrario, e di gran lunga, anche l’autista parla inglese. È comunque inglese piuttosto semplice, ma ne abbiamo abbastanza per parlare per un bel po’, scoprendo così che Vishnu non è sposato, nonostante la sua veneranda età. Domanda interessante, qual è il salario minimo in Nepal? Un euro vale 133 rupie nepalesi e il minimo mensile è 15.000 rupie, che sono 120 euro. In Nepal tutte le merci girano su gomma perché costruire una ferrovia sarebbe impensabile a causa dei monti e delle frane. Con la benzina a 190 rupie al litro, come fanno questi a vivere? È un’ottima domanda, ma la risposta la scoprirò strada facendo, spero.
Con il passare delle ore ha smesso di piovere, così posso stare all’asciutto quando scendo, qualche chilometro dopo Dhankola. Per prima cosa finisco il mango e vado a comprare ancora da mangiare, perché ho leggermente fame. Invece delle solite sei samosa, compro sei palline si pasta fritta, da mangiare con una salsa agrodolce in sacchetto. Le divoro su una panchina, anche se non sono molto buone. Proprio accanto alla panchina c’è una pompa manuale per l’acqua, così mi posso lavare le dita bisunte. In India è comune vedere queste pompe a bordo strada, anche se ormai sono poco utilizzate.
Qui finalmente il traffico inizia a intensificarsi, come speravo, così mi apposto a bordo strada, cercando di rilassarmi. È importante perché in pochi minuti inizia la processione dei nepalesi che credono che mi sia perso o che non sappia come si prende l’autobus. Per massimizzare il mio nervoso, dall’altra parte della strada c’è un gruppo di giovani con una moto, che mi fanno segno di avvicinarmi. Se hanno bisogno che si avvicinino loro che hanno la moto, no? No, succede sempre così, in Nepal come in India. Vorrei ignorarli, ma non posso evitare di voltarmi a guardarli per controllare la loro reazione. Quei decerebrati non muovono un passo, perciò non vedo come possano avere alcunché di interessante da dire. Sono curiosi, ma pigri? Non mi interessa più, che si sbraccino pure. Non è neanche colpa loro, è colpa di tutti gli indiani curiosi e pigri che mi sono lasciato alle spalle.
A salvare la mia sanità mentale ci pensano tre dottori: Santos, Anor e Mittra, diretti a Butwal, l’ultima grande città prima della capitale. Santos e Anor sono chirurghi e tuti e tre stanno ritornando a casa, chiacchierando tra loro e ascoltando musica. Tra le altre canzoni, mi colpisce “Müghlan”, che parla di tutti quei nepalesi che devono lasciare il paese per cercare di guadagnare un salario sufficiente all’estero. Ognuno di loro promette di ritornare in patria, ma molti si stabiliscono all’estero con il cuore spezzato in due. È di questo che parla Bipul Chettri, il cantante, ricordandomi la canzone dell’Oremar che ascoltai all’uscita da Van in Turchia, in viaggio verso Iğdır. (Müghlan, Bipul Chettri,with the travelling band)
La strada per Butwal è tutt’altro che semplice, dovendo superare i tratti sterrati e fangosi, il traffico di camion e autobus e i laghi creati dal monsone. Io pensavo di avere due settimane di vantaggio sulle piogge, ma a quanto risulta il monsone è arrivato con due settimane di anticipo, quest’anno.
A Butwal piovvigina e per prima cosa devo raggiungere un negozio di telefoni per capire che problemi ha questa SIM. Nel negozio sono molto gentili e in quattro e quattr’otto la SIM funziona. Mi lasciano anche usare il wifi e telefono a casa fino all’orario di chiusura. Ha quaasi smesso di piovere, così guado la strada e mi infilo tra le case, per raggiungere una collina boscosa che mi pare perfetta per campeggiare in città. È quasi perfetta, l’unico problema è che inizia a piovere con decisione e mi tocca ripararmi sotto il balcone dell’ultima casa della via. A pochi metri dal cancello del parco. Non ho fretta, tanto ho sempre da scrivere e nessuna intenzione di arrivare in cima con le scarpe bagnate fradicie. In più c’è anche la possibilità che qualcuno mi inviti al coperto, ormai l’esperienza mi ha insegnato quanto sia frequente da queste parti. Ospitalità o no, il piano resta quello di campeggiare nella natura, approfittando della pioggia per scrivere.
Dopo mezz’ora, accade l’inaspettato, un uomo sui trentacinque anni sbuca da dietro l’angolo della casa, dove c’è solo una casupola di mattoni con il tetto di lamiera. Parla hindi e nepalese, perciò riusciamo a capirci. Si chiama Phoolkumar (pronunciato P-hūlkumar), vuole sapere che ci faccio qui, chi sono e da dove vengo. Gira l’angolo e chiama anche la moglie, Pùnita che conosce anche qualche base di inglese. Mi guardano anche con un po’ di tenerezza e mi propongono di dormire in una delle due stanze della loro casa, che è letteralmente quattro mura di mattoni, il tetto e il pavimento di cemento, con una sedia. Loro invece vivono nell’altra stanza, che invece è arredata. Io sono incredulo ben più di loro, sentivo delle voci, ma mai mi sarei aspettato che lì oltre l’angolo ci fosse un’altra casa.
Entro all’asciutto, mentre Phoolkumar (Phulkumar, non Fulkumar) stende a terra un materasso e un cuscino. “Vuoi fare una doccia?” “Forse è meglio. Ah, ho già il mio sapone.”
La doccia si trova sul retro, tra la cucina e il bagno. Sostanzialmente c’è una falda del tetto che ripara le stoviglie, i fornelli a gas e il piano di lavoro. Di fronte c’è una cisterna d’acqua da quattro metri cubi e nell’angolo dello stesso cortile di cemento si trova il cubetto del bagno, costituito da turca, secchio e brocca. La doccia si fa in mutande, con vista cucina. Di acqua ne basta poca, tanto sotto il diluvio di stasera ci si bagna in fretta. Per la cronaca, il sapone lo forniscono loro perché io sono l’ospite. Mi rinfresco dalla calura del giorno sotto questa pioggia fresca e rigenerante, mezza tinozza d’acqua basta per tutta la doccia.
Ora che sono fresco e lindo io e Phoolkumar possiamo fare due chiacchiere, mentre Punita riscalda la cena, perché nonostante io faccia i complimenti non è possibile che un ospite vada a letto senza aver cenato. Arriva riso, pollo in umido con un bel po’ d’olio e roti. Lei si schernisce dicendo di non saper cucinare, ma non è colpa sua se con questo fiume d’acqua il roti è un po’ gommoso. Il resto è ottimo, poche balle.
Mi chiedono il passaporto perché giustamente avere uno straniero in casa insieme a due bambini richiede un minimo di attenzione. Almeno adesso sono chi dico di essere, cioè uno straniero italiano in casa. Di comune accordo, decidiamo di fare una videochiamata con i miei, in modo da presentarli e scambiare due parole. La mamma era impacciata le prime volte, adesso invece parla inglese molto meglio, anche presa alla sprovvista. Io faccio da traduttore bilingue, nel senso che per farmi capire parlo mezzo hindi e mezzo inglese.
Phoolkumar e Punita abitano qui e vendono frutta come ambulanti, ma Punita è nepalese mentre Phoolkumar è indiano. Lui proviene dal Bihar ed è là che hanno la propria vera casa. Che cosa posso dargli per premiare tutta questa fiducia e generosità? Stavolta non sono completamente a mani vuote, ho ancora un pugno di quel riso che mi hanno dato al tempio di Dhari Devi, sulla strada per Agastmuni. A sentire il nome di quel tempio così famoso e lontano Punita e Phoolkumar sgranano gli occhi dalla sorpresa, ma per mangiare il riso dovranno aspettare domani. L’induismo ortodosso prescriverebbe una dieta priva di carne, perciò prima di partecipare ad una cerimonia e mangiare del cibo benedetto, è bene mangiare vegetariano. Accettano la borsina e la tengono in serbo per domattina.
Siamo tutti stanchi e andiamo a dormire perché domani ci si alza alle sette. Installiamo la zanzariera e poi tento di scrivere, ma il materasso è così comodo che…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *