Ashish 3: l’atteso ritorno

Lezione di ieri: Quando cerchi di campeggiare nel bosco, non farlo sapere a nessuno.
Mercoledì 23/06/2022 Thailisain (India)
“Hello?” È bastato molto poco per svegliarmi, sguscio fuori dal bozzolo con il sacco a pelo ed è già mattina, accanto all’amaca c’è un uomo con un cagnolino al guinzaglio e un altro con una giacca bordeaux. Mi fissano e mi chiedono se va tutto bene. “Buongiorno. Sì, grazie.” Aggiungono un paio di frasi e se ne vanno, quello con la giacca va in su e l’uomo con il cane va in giù. Scendo e inizio a impacchettare la mia roba, mentre mi sto amcora svegliando. Non sono del tutto sicuro di aver compreso bene la scena a cui ho appena assistito. È come se un passeggiatore mattiniero sia sceso da Thailisain e vedendomi abbia pensato ci fosse un morto appeso tra gli alberi, perciò, spaventato, è tornato indietro a chiamare un collega del funzionario del governo che ho incontrato ieri. Sono scesi accanto alla mia amaca e mi hanno svegliato. No, non è possibile, eppure è così che hanno detto “someone hanging”, “qualcuno impiccato”. Per fortuna l’uomo con il cane sta già tornando, così posso chiedergli spiegazioni, parla addirittura inglese.
Non ci posso credere, non stavo sognando, è andata davvero così. Quest’uomo ha visto la mia amaca e per prima cosa ha pensato che ci fosse dentro un morto. Aspetto che si sia allontanato per scoppiare a ridere a crepapelle. Non ci posso credere.
Scendo fino in strada e mi accomodo per terra ad aspettare e a scrivere, mentre passano un paio di autobus e di macchine piene.
Arrivano infine Arvinda e Manusumar, due ingegneri edili che si stanno recando in un paese lungo la strada per controllare i lavori di costruzione di una scuola. Per questo facciamo tappa a Baijro a ispezionare il cantiere. Scambio appena due parole con gli operai, che per buona parte sono più giovani di me e nelle pause imparano a scomporre i polinomi, come prova la lavagna appoggiata per terra in una delle stanze già intonacate. Nonostante l’intonaco, le pareti della stanza sono piene di grossi buchi all’altezza del petto. Poco dopo comprendo la ragione, invece delle impalcature qui si raggiunge il soffitto infilando un palo orizzontalmente da muro a muro. Sali in piedi sul palo e sei già all’altezza giusta.
Faccio una foto ai gigli selvatici e ripartiamo, verso l’abbiocco e oltre. Non sono affatto di compagnia e mi perdo parecchio paesaggio, che qui è notevolmente bucolico. La maggior parte del terreno non è coltivata, con l’eccezione del terreno nei pressi dei paesini, arredato con grossi covoni di piante di granturco posti a guardia dei terrazzamenti. Ogni tanto passiamo nelle pinete, con gli alberi bruciacchiati e l’erba verde sotto le chiome. Il motivo di questa pratica piromane resterà un mistero, non riesco neanche a spiegare la domanda ad Arvinda e Manusumar. Sono così gentili da portarmi a Dhumakot, dove ho incontrato Abshay e suo padre la settimana scorsa. Torno a sedermi nello stesso posto della volta scorsa, ma ci resto per poco, giusto il tempo di mangiare l’ultimo mango. Rasid mi dà un passaggio a Jadaukhand, dove trovo nientemeno che Rawat, il pittore. È immerso nel lavoro, infatti non dipinge solo olio su tela, ma anche acrilico su camion. Al momento sta riproducendo un logo sul portellone posteriore color blu petrolio. Tutti quei camion colorati di cui ho parlato (ne parlerò quando scriverò del prima) talvolta son9 coperti di adesivi, ma molto spesso le scitte e le decorazioni sono dipinte, così durano molto di più. Non solo i camion, ma anche gli edifici spesso hanno delle pubblicità a tutta parete. Non si usano i manifesti di carta qui, quelle pubblicità sono dipinte a mano con una maestria formidabile. Tra una battuta e l’altra, Rawat afferma seriamente che non scenderà a Dunagiri prima di tre giorni, perciò sarà difficile rivederci, non conto di restare là tanto a lungo.
Monto in macchina con Saraj, amico di un amico, che mi porta fin giù al sentiero che porta al paesino di Kilari. Mentre salgo saluto qualche viso noto, per poi fermarmi nel punto in cui Kilari è solito lasciare lo scooter. Qui ci sono due uomini che conosco, fradici di sudore, che si stanno riposando un attimo durante la costruzione di una nuova casa. È dura trasportare in spalla trenta chili di sabbia alla volta, specialmente in salita e sotto il sole di giugno. D’altronde è l’unico modo, perciò si rialzano e via, un altro giro.
Intanto arriva Pandit, che si ferma con noi a chiacchierare. “Hai mangiato?” “Ehm… ho mangiato mango.” Mi porta in uno dei due edifici in cui abita, dove al pianterreno c’è uno di quei tavoli-letto di compensato. Ci butta sopra una coperta un po’ impolverata e un paip di cuscini, poi va a recuperare un piattone di riso e verdure cotte. Dopo mangiato ci riposiamo perché è l’ora della siesta e Kilari tarda ad arrivare.
Finalmente il nostro uomo si fa vivo, andiamo a casa sua a lunghe falcate per lasciare lo zaino e poi via giù allo scooter, saltiamo in sella e si va al bar per portare gli omaggi ufficiali. Finito con il bar, saliamo ad Adalikhal, dove mi aspettano la signora dei mini cornetti che mi ha adottato come figlio, l’elettricista senza mani, il sarto e tutta la combriccola di sempre. Kilari compra succo di mango per tutti e due e torniamo al bar sorseggiando il brick. Inizia il conto alla rovescia, è possibile scendere al bar a motore spento in meno del tempo necessario a finire il brick? Non ci spero affatto, ma poi arriviamo vicino, molto vicino, mancano cento metri, settanta…. È andato, mancava pochissimo ma non ce l’ha fatta, è precipitato sull’asfalto a un soffio dall’arrivo. Conferisco almeno il suo fratello nel bidone. Non riesco a capire che cosa dicono e mi siedo a raccontare della mia piccola odissea e poi a scrivere. Facendo i conti della strada macinata rimango sconvolto anch’io. Tra Dunagiri e Bhanyiawala ci sono 100 chilometri in linea d’aria, ed escludendo la deviazione di 100 chilometri per Agastmuni io ne ho percorsi 600 tra andata e ritorno. Sono impressionato anch’io, non me l’aspettavo, ecco perché mi è parsa un po’ lunga la strada. Però è stato bellissimo, lo rifarei cento volte perché quei paesaggi lassù sono meravigliosi.
Restiamo al bar qualche ora, per poi tornare a casa per la cena. Finalmente posso salutare Urmila e Aradna come si deve, perché prima sono passato come una meteora. Nel cortile ci sono tutte le capre parcheggiate, tutte legate vicine tranne il giovane capretto, che però zoppica. Un paio di giorni fa ha dato una storta e ora ha una gamba fuori uso. Sta legato ad una gamba del letto esterno, con a disposizione foglie a volontà. Questa mattina, quando Kilari ha saputo del mio arrivo, ha comprato un pezzo di carne di capra tornando da Dhumakot. Per farla a pezzetti serve una piccola mannaia e un supporto di legno per non distruggere la lama. Urmila dispone a terra un sacco che non è molto più pulito del selciato, ponendoci sopra un grosso pezzo di legno duro su cui solitamente passeggia mamma capra. Non importa, tanto dopo cuociamo tutto.
Dopo aver osservato la macellazione della carne in bocconi, salgo di sopra a scrivere e a osservare la preparazione dall’alto. Hanno comprato un pezzetto di capra perché sono tornato o era già in programma? Non lo so, conoscendoli potrebbe essere giusto il primo motivo. La capra in umido è buonissima, specialmente perché quassù i giorni in cui si mangia carne o pesce sono giorni speciali, mi pare che non capiti spesso.
Dopo cena scendiamo di nuovo al bar per fare due chiacchiere al circolo degli uomini, che si riunisce qui praticamente ogni sera, a serranda abbassata. Il motivo è il solito, non hanno solo marijuana da fumare, ma anche una bottiglia di Royal Stag, il whisky da annacquare tanto quanto costa. Accanto a me, attorno al tavolo, ci sono die che parlano inglese. Uno dei due in particolare, di circa cinquant’anni, parla inglese particolarmente bene e mi faccio insegnare da lui qualche parola di hindi in più. Restiamo là fino a tardi, poi ci dirigiamo a letto, tutti al coperto perché la notte promette pioggia.

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