Lezione di ieri: i luoghi di fantasia descritti nei libri esistono davvero.
Sabato 18/06/2022 Kotdwar (India)
Ora che c’è di nuovo luce posso smontare la branda ed esplorare il mio fortino. La fortificazione è composta da una struttura centrale larga quattro metri, che si prolunga verso nord grazie a due torri, connesse al centro da ben tre livelli di ponti, grossi rami orizzontali imbrigliati nelle radici colonnari scese verso il terreno. Qui sul ballatoio Est invece il ramo enorme su cui mi trovo è sostenuto da un robusto pilastro di quasi un metro di diametro. Molto sopra di me, i rami cresciuti in obliquo forniscono anche una blanda copertura dalle intemperie. Sul lato Ovest invece un antico bastione è rovinato al suolo e giace in rovina.
È esattamente uno di quegi alberi maestosi sui quali si rifugiano i personaggi dei libri di Salgari per trascorrere la notte nelle foreste tropicali, lontano dalle belve e dalle lamme degli inseguitori. Si tratta di piante di dimensioni e conformazione ai limiti dell’immaginabile, per noi che siamo abituati a chiamare alberi degli insignificanti cespugli. Se questo si trova ad appena cinquanta metri dalla strada, chissà quali altri colossi vivono nel parco nazionale e nelle sue vicinanze, che sono altrettanto selvagge e non sfruttate.
Reggendomi al corrimano procedo fino alla torre Nord per valutare la fruibilità dei ponti. Muoversi qua sopra è di una semplicità impressionante, tanti sono gli appigli e tanto grandi sono i rami. Mentre mi trovo al secondo livello, tuttavia, inizia a piovere come piove nella foresta. Un istante prima, due gocce e un istante dopo scende il diluvio. Salgo in fretta a mettere lo zaino al riparo in uno spazio coperto che ho visto la notte scorsa accanto a dove ho dormito. Io invece devo cercare un’altra sisemazione, non facile perché non è stata predisposta neanche una piccola tettoia quassù. Trovo un punto riparato andandomi a infilare dentro una struttura che pare priprio la cella di una prigione. Sono intrappolato nella giungla a quanto pare. Aspetta aspetta… ha smesso! Corro su a prendere lo zaino, e mentre riprende a piovere come prima scendo con cautela per ripararmi alla base del tronco, dove la pioggia non può raggiungermi. Sono in ritardo, oggi dovrei andare a Rishikesh per rivedere Sebastian, ma sono già le nove e diluvia così forte che c’è la nebbia. Per la cronaca, in hindi non esiste alcun suono sc, ma solo s e s-h, e Rishikesh non fa eccezione, qui tutti dicono Risikes, con tante s sibilanti. La nebbia si dissipa e scendo in fretta i tornanti, fermandomi di tanto in tanto a consultare la biblioteca dei cartoni di liquore disseminati a bordo strada. È un’enoteca ben fornita, ci sono molte marche diverse, ciascuna che decanta in modo diverso le note inconfondibili del proprio concentrato di mix di whisky mescolato con alcol prodotto con un mix di cereali e coloranti. Però i coloranti sono legali, almeno, è specificato perché non si può dare per scontato niente. Come fanno ad avere tanto mercato, con il prezzo che hanno? Magari sono anche buoni, ma non mi ispirano per niente. A Dunagiri il Royal Stag, il whisky più scadente, si beve allungato con molta acqua, così dura di più.
Sulla strada ci sono molte macchine, ma poche sono private, perciò servirà pazienza. Si ferma un motociclista che mi vuole dare un passaggio in centro a tutti i costi, perché è convinto che io sia diffidente perché non sono abituato a fare l’autostop, così mi tocca discutere a lungo per mandarlo via senza offenderlo. È testardo come un indiano e non c’è argomentazione che lo possa convincere, gli volto le spalle e basta.
Non è per niente semplice trovare un passaggio, alla fine devo accettare un passaggio in macchina fino al centro da una famiglia in macchina. Il padre si chiama Teo-qualcosa e vuole portarmi alla stazione degli autobus. Ho un bel da insistere per cercare di spiegare il concetto che non sto cercando di prendere un autobus, specialmente quando ci troviamo proprio dietro all’autobus per Dehradun. Riesco ad avere la meglio e mi porta all’incrocio con la strada per Najibabad. Poco più avanti ci sono dei lavori in corso che strozzano il traffico, così mi piazzo subito dopo, che mi pare un bel posto. Sostanzialmente stanno scavando una buca stretta e profonda, esclusivamente a mano. Un operaio scava e l’altro recupera la terra con un secchio da pittura legato a una lunga fune. Non riesco a indovinare se abbiano già trovato il petrolio o no, ma intanto un terzo operaio si avvicina per fare due chiacchiere. È provvidenziale avere qualcuno lì accanto, così ha lui l’onere di distribuire la brochure delle mie generalità a tutti i generosi seccatori che si avvicinano pensando di potermi aiutare. Il fatto è che arrivano sempre uno alla volta e ho pensato spesso di scrivermi in fronte le risposte alle domande frequenti. L’operaio in questione si chiama Sandi Rawat e al momento si sta riposando, perciò mi aiuta a fermare una macchina e a spiegare dove vado. Non funziona tanto bene perché gli indiani non si fidano degli altri indiani, comunque con pazienza trovo quattro ragazzi diretti a metà strada per Najibabad. Pawan è quello seduto accanto a me e non fa una piega anche se siamo piuttosto stretti.
Dieci minuti dopo, mi lasciano proprio all’incrocio con una strada secondaria che porta direttamente a Haridwar, la città prima di Rishikesh. Che sia una buona idea prendere la scorciatoia? I miei sensi di autostoppista mi dicono di sì, e infatti pochi minuti dopo arriva una piccola utilitaria guidata da un uomo con una lunga barba bianca e un grosso turbante dello stesso colore. Dopo aver conosciuto Sundeep ho imparato molto sul buon cuore dei sikh, infatti la macchina accosta e faccio la conoscenza di Dvibdar Singh, proveniente dal Punjab. Fa l’agricoltore e si trova qui in viaggio per lavoro, normalmente abita nel lontano Punjab mentre i suoi figli studiano nella lontanissima America, in Canada. Parla solo hindi, ma adesso che ho di nuovo internet posso ricominciare a parlare e a studiare. Tuttavia trovo ancora terribilmente difficile scrivere in alfabeto devanagari le parole che sento pronunciare, perciò servono dieci minuti di tentativi per capire che “koser” vuol dire “agricoltore”. D’altro canto, un mese dopo, al momento di scrivere queste righe, mi ricordo ancora una parola che non ho mai più sentito né usato.
Mentre parliamo del mio viaggio Dvibdar capisce che non sono proprio un riccone e all’arrivo a Haridwar insiste per darmi cinquecento rupie, ma rifiuto fermamente ringraziandolo mille volte, e funziona. Mi incammino accanto alla strada per Rishikesh, rialzata rispetto alla corsia di accelerazione. Le pareti di cemento sono istoriate con innumerevoli scene multicolori tratte dai testi sacri. Difficile trovare un passaggio qui, nel marasma di tuktuk e di automobili stipate di indiani in viaggio verso la città sacra, così continuo a piedi accanto al traffico congestionato, con le moto dietro di me che suonano all’impazzata perché sono salite sul marciapiede strettissimo e ora per scendere gli tocca aspettare i pedoni. Ebbene sì può capitare di trovare dei pedoni sul marciapiede. Io al momento sono estremamente stizzito per la pesca al cloro e per tutto lo schifo che c’era nella foresta di ieri notte, perciò mi importa di loro quanto a loro importa di ciò che sta a cuore a me. Oltre al fatto che, per quanto attaccarsi al clacson faccia parte del folklore indiano, la guida indiana ha lo stesso approccio menefreghista dei picnic nella natura incontaminata e non merita di essere assecondata. Sono felice di essere abbastanza grosso da impedire il passaggio.
La strada si avvicina ad un fiume, è questo fiume è nientemeno che la Ganga, che noi chiamiamo Gange per via dell’etimologia greca del termine. Di là dal fiume una gradinata di cemento lungo tutta la riva, per centinaia di metri, con parecchi indiani che fanno il bagno nel fiume in piena tra la gradinata e il parapetto. Non è molto affollato oggi, per via della stagione sfavorevole e del maltempo, ma la strada è ugualmente congestionata e non oso immaginare come debba essere quando questo luogo si riempie di pellegrini. Essendo a piedi e non in autobus, ho tutto il tempo di scattare qualche foto alla scena, con parecchi edifici colorati sullo sfondo. Tuttavia non sono certo gli indiani ad attirare la mia attenzione, quanto piuttosto una statua colossale di Shiva, dalla pelle azzurra. È alta trenta metri ed è situata tra me e la Ganga, sopraelevata di alcuni metri rispetto al livello attuale. Il traffico si è diradato un minimo e posso provare a salire in macchina. Si fermano subito Kishan e Rajan, che provengono da Ganganagar, nel Rajastan, e sono in viaggio per lavoro qui in Uttarakhand. Spostano alcune bobine di film plastico ed ecco fatto il posto per me. Mi sembra allucinante che siano venuti fino qui per vendere questi 140 chili di plastica, ma in fondo cinquecento chilometri non sono niente e possono tornare anche dopodomani volendo. Questa plastica trasparente è sostanzialmente un lungo tubo schiacciato e avvolto. Una volta verniciato e saldato serve per confezionare lo shampoo. I due sono simpatici e parlano addirittura un pochino di inglese, ma purtroppo la loro prima fermata è cinquecento metri più avanti, nel parcheggio enorme di questo luogo sacro. Mi propongono di passare qualche ora con loro, per andare a Rishikesh tutti insieme. Parcheggiamo accanto ad un autobus bianco, affrescato di una sventagliata di sputacchi di tabacco da masticare sotto ogni finestrino. Sulla banchina si vendono taniche arancioni di ogni misura, cibo, souvenir, ma anche fiori e foglie da offrire al Gange. Attraverso la fiumana di pellegrini che attraversano il ponte, raggiungiamo la banchina opposta, dove Kishan prontamente si spoglia e entra nell’acqua gelida in mutande e occhiali da sole. Rajan mi guarda e mi chiede se voglio fare il bagno. Me lo sto chiedendo anch’io da qualche minuto, perché il mio piano era di compiere la famosa abluzione nella madre Ganga a monte di Srinagar, approfittando del fatto che sarei arrivato dai monti. A quanto pare qualcosa non ha funzionato, ma non tutto è perduto. Sicuramente se fanno il bagno tutti e due lo faccio anch’io, non ho intenzione di starmene sulla riva come un turista europeo, a guardare centinaia di indiani che fanno il bagno con noncuranza e sopravvivono a questa esperienza tremenda. La triste fama dellla Ganga deriva dalle condizioni pietose in cui si riduce più a valle, dopo aver subito le ingiurie di centinaia di migliaia di indiani che scaricano rifiuti e liquami fuori dalle mura domestiche come se fossero da soli in India. È per questo che mi è sembrato più che ragionevole promettere di non fare il bagno in un tale putridume, pochi giorni prima di lasciare casa. Inoltre fare breccia nel carnaio che si genera durante le ricorrenze sacre sarebbe stato impossibile, specialmente con uno zaino così prezioso come il mio Hans. Tuttavia ogni volta che il Gange appare in televisione, è per annunciare che quest’anno l’affluenza dei pellegrini in un determinato giorno è stata la più alta mai registrata e il governo è in pensiero per le malattie epidemiche eccetera eccetera eccetera. Nel frattempo si vedono filmati di formicai umani che sarebbero più appropriati come documentari di Superquark. Tuttavia la situazione che c’è qui è completamente diversa. La Ganga è praticamente in piena e scorre velocemente, le scale sono quasi vuote e in acqua i bagnanti sono molto radi. Ci sono molte decine di migliaia di indiani che vivono a monte di qui, è vero, ma qui a Haridwar non credo che sia molto diverso dal fare il bagno in Po a Reggio. Kishan recupera un foglio di plastica pulito su cui appoggiare la nostra roba, così in un attimo siamo dell’acqua, torbida a causa dei sedimenti portati dalla piena. Rajesh inizia a spruzzarci, scatenando la guerra. Vado a prendere la gopro per scattare qualche foto in acqua. Quando siamo soddisfatti completiamo l’abluzione con l’immersione completa. Immergersi ripetutamente è la migliore forma di preghiera in questo luogo sacro. Perché ci si immerge in queste acque? La Ganga è così speciale perché nei testi sacri Ganga è una moglie di Shiva, così come la dea Parvati. Se ho capito bene, immergersi nel fiume è come immergersi in Dio, allo scopo di purificarsi dai peccati o di suggellare una preghiera.
Ci asciughiamo alla bell’e meglio e facciamo due passi per la via parallela al fiume, oltre la fila di alberghi pitturati di fresco. “È bello alto il livello del fiume oggi, capita mai che vada di sopra?” Ho fatto tombola, la risposta è molto più interessante di quanto mi aspettassi. I miei amici mi raccontano che nel 2012 c’è stata una mostruosa piena, che non solo ha tracimato, ma ha riempito tutta la vallata fino a raggiungere le spalle della statua di Shiva, ma senza mai coprirne la testa. Il fatto è che dietro gli alberghi c’è una collina, ma dall’altro lato la valle è enorme, servirebbe una quantità di acqua immane per riempirla per trenta metri. Si fermano da un venditore ambulante per offrirmi una samosa da passeggio, poi torniamo alla macchina e nel traffico incessante della strada per Rishikesh.
Sembra che abbiamo sbagliato svolta, ci fermiamo a prendere un piattino di cibo in più e nel frattempo i miei autisti chiedono indicazioni stradali all’ambulante, che non sa neanche dove sta di casa, come si dice dalle mie parti. A quanto pare la strada principale è chiusa e lo spartitraffico che c’è qui ci obbliga a proseguire per 25 chilometri prima di poter fare inversione di marcia. Secondo me si sono dimenticati di essere indiani, oppure si sono bevuti il cervello tutti quanti. È impossibile che non ci sia alcun varco per 25 chilometri, se non c’era sicuramente qualcuno l’ha aperto abusivamente. Oltre al fatto che potremmo semplicemente guidare contromano per dove siamo venuti, nessun indiano si è mai fatto scrupoli. Invece loro sono persi. Poco dopo le teorie disfattiste dell’ambulante vanno in frantumi quando mostro a tutti un tir che fa inversione di marcia in un varco dello spartitraffico, cento metri più avanti.
Andiamo a Rishikesh, ma emerge una nuova difficoltà legata al traffico. Siamo bloccati a due chilometri dal centro, una distanza incolmabile a piedi per Kishan e Rajesh, non so perché. Invece di restare immobile per la prossima ora decido di lasciarli in balìa dell’indecisione e di proseguire a piedi fino al bar dove si trova Sebastian. Lungo la via telefono al papà, nonostante il chiasso assordante dei motori preistorici e dei clacson. Ricordo bene che quando ero in Bosnia ho iniziato a notare un progressivo peggioramento della qualità dei motori e ho pensato che questo mi avrebbe fatto sembrare l’arretratezza dei mezzi di trasporto molto meno grave di quanto sia in realtà. È proprio così, il mio papà appassionato di motori sussulta ogni volta che gli giunge il dolce suono di queste locomotive a vapore.
Strada facendo incontro un pellegrino magro magro, dalla lunga barba incolta, con un costume veramente singolare. Sarebbe seminudo, se non avesse legati attorno al busto, alle braccia e ai polpacci dei cuscini sudici e sdruciti. È accompagnato da una donna, che lo sta assistendo nella difficile impresa di raggiungere la meta da sdraiato. Si sdraia supino, posa a terra una piccola pietra, si rialza e si sdraia di nuovo nel punto in cui si trovava la pietra. Non ho idea di quanto sia lontana la sua destinazione, ma senza dubbio ha già coperto molta strada.
Quando raggiungo il bar dove si trovava Sebastian, lui non c’è più. Proseguo nella zona pedonale gremita di gente, attraversando un ponte con una stretta corsia per i pedoni, a doppio senso. Se non ti imponi ti tocca fare a spallate con ogni passante, ma io ho un bastone e loro sono tutti in ciabatte. Quando un uomo con il bastone incontra un uomo con le ciabatte, l’uomo con le ciabatte corre un grosso rischio se non sta nella sua metà. La fila indiana non è stata inventata qui, senza dubbio. Qui la prassi è il mucchio indiano, come del resto in Italia.
In fondo al ponte c’è un tunnel dipinto a murales, che mi pare rappresenti da un lato Gangotri, dove si trova la sorgente della Ganga, dall’altra invece c’è il porto di Kolkata, dove il fiume sfocia nel golfo del Bengala.
Mentre risalgo il lungofiume verso l’ostello di Sebastian, mi affianca un motorino con dentro il casco una faccia conosciuta. Il fatto che abbia il casco allacciato fa di lui un europeo e il sorriso fa di lui un autentico Sebastian Fritz, in carne ed ossa. Mi offre un passaggio, malgrado sia la prima volta che guida un motorino. Poco più avanti troviamo il suo amico Nico, zoppicante a causa della caduta di stamattina. Il suo battesimo delle due ruote ha avuto una brusca fine dopo cento metri. Nico lavora con Sebastian, è anche lui tedesco ed è arrivato in India da poco. È un tipo simpatico, molto alla mano, lo copro di domande su come sia stato il suo primo impatto con l’India, con Delhi. È stato tosto, dice, ma si sta abituando molto in fretta.
Ci dobbiamo già salutare perché loro sono stanchi morti e vogliono andare in camera.
Ci diamo appuntamento per l’indomani a colazione e io mi dirigo verso la collina a Est di Rishikesh, ricoperta di foresta. È sicuramente una tiger area e ad un secondo esame mi risulta che sia anche un parco nazionale. Ormai ho deciso di andarci e ci vado, non importa, basta essere cauti e non farsi vedere, altrimenti gli indiani pensano che mi stia suicidando.
Aspetto il momento giusto, passo la strada ed entro nell’ombra, fatto. Il sentiero non è qui, ma risalendo questo ruscello secco prima o poi troverò un posto adatto per campeggiare. Nel frattempo sono al telefono con la mamma, mentre sudo sette camicie per risalire la china, facendomi largo tra le piante. Un’ora dopo, molto più su, trovo un albero che potenzialmente fa al caso mio. Questo è davvero anti-felino, ip stesso posso scalarlo solamente con l’aiuto della corda. In alto però non si presta affatto all’amaca, inoltre salire e scendere con lo zaino mi sembra pericoloso. Gli alberi sono pochi, qui ci sono prevalentemente arbusti. A mio parere è il posto peggiore in cui venire a cercare anche solo un leopardo, facciamo che campeggio in basso e buonanotte. Nelle vicinanze ci sono giusto un paio di alberi affacciati sulla valle, che garantiscono un’ottima vista. Ci vediamo domattina, le possibilità di scrittura a quest’ora sono molto ridotte.