Lezione di ieri: Abbi pazienza, in India ti faranno tutti le stesse domande.
Venerdì 16/06/2022 Dunagiri (India)
Questa mattina mi sveglio presto come ieri, ma Kilari non dà segno di volersi separare dal materasso. Boh, torno a dormire anch’io. Ci portano il tè mattutino bollente in camera e mentre lo sorseggio inizio a scrivere.
Cosa mangeranno oggi le capre? Non si sa, ma sono ancora tutte legate alle poste sul selciato davanti a casa. Aspetto di capire che cosa succede. È perché è piovuto forse? Andiamo in bagno senza pecore e ritorniamo a letto.
Intanto il sole sorge e andiamo a fare la doccia mattutina giù alla cisterna. Stavolta portiamo anche un secchio per non dover fare le contorsioni. Non mi pare che sia la stessa cosa, rinfresca molto meno e preferisco le contorsioni, al diavolo il secchio. È il momento di annunciare a Pandit e Kulassin che stamattina partirò per Dehradun, così ci salutiamo.
Andiamo a fare la doccia quotidiana alla cisterna e ci ritroviamo tutti e quattro, Kulassin, Pandit, Kilari e io. Ecco la SIM, tanto bramata, ora posso tornare autonomo, grazie Pandit! “Niente cose illegali!”, si raccomanda lui. Ora basta ricaricare la SIM e poi la potrò usare.
Tuttavia la mia partenza non è gradita, come già fecero i figli di mama Nikolozi a Korbouli, mi propongono di restare e andare a pesca, oggi stesso. Finiremo a metà pomeriggio, dovrei avere il tempo di partire. Io non ho ancora usato il mio kit da pesca, che non vede l’ora di rendersi utile, accetto e rimando.
Torniamo a casa e dal piano di sotto ci passano i piatti con la colazione. Forse è per questo che il piano di sotto è decisamente più basso del piano di sopra, ci possiamo passare gli oggetti senza dover fare le scale. Per me c’è sempre un bicchiere extra così posso bere l’acqua come sono abituato, portando il bicchiere alla bocca. Cosa che puntualmente non faccio perché la mia abitudine ormai è indiana. Molto meglio versare l’acqua in bocca, basta abituarsi e c’è meno da lavare.
Puliti e nutriti, montiamo in sella allo scooter e andiamo al bar, che è più sacro del tempio e non fermarsi ad ogni passaggio pare essere un atto sacrilego.
Infatti non stavamo andando davvero al bar, sempreché qualcuno avesse formulato un piano, stavamo andanda Adalikhali a salutare tutto il paese. Per prima cosa compriamo una bibita da 100ml con una bevanda rifrescante e leggermente piccante. Tra gli ingredienti infatti c’è il pepe.
In paese c’è un’anziana signora che gestisce un piccolo emporio, la quale parla piuttosto bene l’inglese ed è felicissima di vedermi. È così entusiasta che viene dall’altra parte della strada a portarmi un gelato, il cono più piccolo che abbia mai visto, che sta nel palmo di una mano. Pongo fine alle sue sofferenze, perché deve aver patito le pene dellottava bolgia dell’inferno per arrivare fin quassù sotto il sole dell’estate. Noi intanto siamo venuti a salutare il sarto, quello che ieri sera voleva ballare con me, che si trova insieme all’ex-elettricista che frequenta il bar. Mi offrono un bicchierone di gazzosa fredda da bere insieme al gelato. Più che fare della sartoria vera e propria in realtà qui si raccomodano i vestiti, infatti noto una grossa borsa piena di cerniere. È il mio momento, è da quando l’ho riparata a Pejë a casa di Richard che ogni tanto si apre. Inoltre anche la tasca posteriore è perennemente aperta perché la cremagliera si è scucita, due volte. Hanno anche i colori giusti, le compro. “Aspetta, te li riparo io!” “No, facci da solo, mi serve solo la cerniera.” “Ci vogliono cinque minuti.” “D’accordo, va bene”
Si siede dietro la macchina da cucire, nella penombra di questa bottega microscopica che potrebbe essere otto metri quadri, se non fosse ingombra di vestiti e scampoli per più di metà. Per entrare bisogna fare le contorsioni intorno alla porticina attacata al banco che sbarra l’ingresso.
Il sarto oggi si è dimenticato gli occhiali a casa, perciò non ci vede tanto. Inizia a strappare le cuciture, aiutandosi con un paio di enormi forbici usate a mo’ di sega. Di tanto in tanto buca il tessuto, proseguendo imperterrito. È ora di cucire, sarà meglio che gli faccia luce con la torcia perché accecato com’è non ha neanche una lucina per vedere che cosa sta facendo. Prende le misure e inizia a cucire, un po’ a destra, un po’ a sinistra, scuce e rifà, si rompe il filo, ci ripassa sopra, salta un pezzo et voilà, ecco fatto! Stanno insieme, anche se la cerniera è cucita el posto sbagliato e non si chiude fino in alto. La prossima volta li porto a riparare al ristorante. Gli lascio duecento rupie, che sono sicuramente un prezzo esagerato, ma altrimenti lui e quell’altro non riescono a comprarsi da bere. Adesso andiamo che è tardi e bisogna andare a pesca. L’altra cerniera la cucirò poi io.
Torniamo verso casa, ma tiriamo dritto perché si va direttamente al fiume con Pandit e altri amici. “Ho il mio kit per pescare su a casa, vado e torno.” Vengo ignorato, tiriamo dritto giù per la strada, seguendo i tornanti che abbracciano la montagna. Con cosa peschiamo, mi pare che siano a mani vuote. Questa mattina Pandit ha mimato la pesca a mano, ma non sembrano gente di cotanta maestria. Al paese a fondovalle ci riforniamo di succo di frutta e scendiamo al fiume. È ora che capisco tutto.
Con noi è venuto anche un sacco di polvere bianca, dieci o quindici chili di cloro in polvere. Dannazione. E io che cosa faccio? Niente, non faccio proprio niente, anche perché la dialettica non funzionerebbe, qui quello che parla più inglese di tutti è Kilari. Sai cosa faccio? Li seguo e li studio, cerco di capire come ragiona questa gente e osservo anche che cosa succede a sciogliere una borsa di cloro in un torrente. Sono fenomeni che a scuola si possono solo descrivere, non è che la maestra ti possa portare sul campo a condurre l’esperimento. Il mio lavoro in effetti è questo, proteggere la natura dagli sconsiderati in modo che tutti ne possano godere i benefici. Ovviamente conoscere il come e il perché di questi comportamenti distruttivi è il modo migliore per prevenirli. È facile formulare ipotesi, ma ciò che conta sono i fatti.
Parlano talmente poco inglese che inizio a girare diversi video, spiegando ad alta voce che non lo stanno facendo per perfidia, anche se sanno che in generale è una pratica inquinante. Lo stanno facendo perché sono ignoranti, non hanno la mimima idea di quanto sia complessa la catena alimentare che ha in cima i pesci. Per loro esistono solo l’acqua e il pesce, perciò una volta che l’acqua è passata e il pesce è preso, il torrente è come prima e loro hanno pescato. Nel frattempo risaliamo l’alveo fino alla polla di ieri e più su, più su, pare che l’intento sia di provocare il maggior danno possibile. Raggiunto un punto adatto posano tutto e iniziano a versare la polvere in uno straccio, per preparare un fagotto da strofinare sulle rocce per dissolvere il cloro. A questo punto uno del gruppo mi dice di smettere di riprendere, evidentemente questo metodo di pesca è illegale anche nel paese in cui non importa niente a nessuno. Vado a fare i video altrove, mentre le prime pozze iniziano a colorarsi del bianco lattiginoso del cloro. Alcuni angoli dove l’acqua circola poco ospitano i piccoli pesci boccheggianti, mentre quello grosso che stanno cercando di stanare si è rifugiato nel punto più profondo della pozza. Le operazioni di rilascio del cloro vengono interrotte per cercare di acchiappare qualche pesce stordito dall’acqua tossica respirata. Niente da fare, serve decisamente più cloro, l’acqua è già tornata piuttosto limpida. Si rimettono al lavoro, questa volta continuano a sciogliere cloro finché non è finito il sacco, che giustamente viene gettato nell’acqua biancastra, insieme allo straccio e alle bottiglie di succo di frutta. Ora sì che ha funzionato, i pesci di medie dimensioni fluttuano nell’acqua boccheggiando, mentre quelli già morti brillano sul fondo, a pancia in su. I primi che mi passano si dibattono ancora, li scagliamo con forza sulle pietre per finirli e accumularli in una pozza accanto ai vestiti. I pesci morti abbondano, perciò mi unisco alla raccolta in maniera meticolosa. Se abbiamo fatto il danno, almeno che sia servito a qualcosa.
Così inizio a raccogliere tutto, anche i pesci più piccoli, che sotto gli otto centimetri verrebbero scartati. Io li raccolgo in uno degli stracci di prima, gli altri li tengono in mano e pretendono che vada da loro a prenderli. Do via uno straccio e ne cerco un altro, do via quello e trovo il sacco del cloro, perfetto per raccogliere pesce in quantità. Mi prendono anche quello e mi trovo un altro straccetto. Dovrei restare a fissare i pesci raccolti così gli uccelli non li portano via, ma forse è il caso di coprire la pozza do sassi, così non si vede, no? È una faticaccia essere intelligenti anche per gli altri.
Quando già hanno finito di raccogliere il pesce e lo stanno sviscerando lungo la riva, io sto ancora finendo di ripulire il fondale dai pesci morti. Alcuni sono ancora abbastanza vivi da potersi riprendere, altri invece li do per spacciati e li metto in saccoccia. Ormai a forza di dare via stracci mi è rimasta solo la bottiglia del succo, che ha anche la maniglia e si trasporta facilmente. Raggiungo il punto di lavorazione del pesce e mi assegnano il compito di gettare via tutti i pesci piccoli, che sono troppo piccoli per pulirli uno ad uno. Facciamo che questa è la mia parte di pesce, infilo tutto nella bottiglia e la riempio d’acqua, così stanno freschi.
Per l’ennesima volta, mi chiedono se mi sono divertito. Di nuovo rispondo di no, anche se forse ho dissimulato bene. “Perché dovete usare il cloro e non li pescate con la canna o con una rete?” Un po’ di inglese lo capiscono, se parlo piano e mimo. “Perché è una perdita di tempo.” Questa è la semplice risposta. Intanto a valle del punto di eviscerazione il torrente è gremito di piccoli pesci venuti a banchettare, l’acqua è tornata limpida e il cloro si sarà fermato nella piscina, prima di proseguire verso valle. È passata appena un’ora e apparentemente il torrente è come prima. Chi potrebbe mai sospettare la presenza di insetti, larve, avannotti degli stessi pesci, piccole alghe e microrganismi si ogni sorta che vengono sistematicamente annichiliti dal cloro, che è assolutamente aspecifico nei confronti della materia organica in generale? Non dovrebbe volerci molto tempo perché le specie più prolifiche ricolonizzino il chilometro di torrente sterilizzato, ma tutto dipende da quanti sedicenti pescatori ci sono nella valle. Se qualcuno decide di venire a pescare anche solo una volta al mese, specialmente quando i pesci depongono le uova, è un disastro. Anche se in fondo non gli importerebbe, sono arrivato a questa conclusione. È lo stesso motivo per cui qualcuno è venuto a bere sul torrente e poi ha spaccato la bottiglia nell’acqua. Così mi sono tagliato nel tentativo di bonificare il fiume. Bisognerebbe spaccare altre bottiglie invece, finché non diventano intelligenti.
Torniamo verso le moto, mentre Kilari non fa che stressarmi dicendomi di mettermi le scarpe e “Come phast! Come phast!” Mi metto a correte scalzo e lo lascio indietro. Quindici chili di cloro per prendere otto chili di pesce. Oltre a essere una tecnica dannosa è anche inefficace.
Ora che siamo alle moto salgo a bordo dietro Kilari e mentre partiamo faccio un bel respiro profondo. È tutto finito, loro non hanno idea di che cosa hanno fatto e adesso si torna alla vita di prima. Pace.
A metà salita, ci fermiamo ad un tornante inoltrandoci qualche metro nel bosco. “Che cosa fate?” Pandit risponde: “Sering”. Che cosa vorrà dire? Vuol dire sharing, si dividono il pesce, ma in hindi non esiste il suono sc. Stendono il sacco del cloro, che se non ci fossi io sarebbe nel torrente, e un altro fazzolettone con tutto il pesce sopra, poi Kilari inizia la spartizione. A occhio ci sono cinque specie di pesce, per primi vengono divisi quelli più grossi, che sembrano dei cavedani. Io ho già la mia parte di pesce, mi bastano i piccoletti. Ho raccolto una marea di pesciolini maculati con i baffetti che secondo loro non sono buoni, ma la vedremo una volta fritti. Inoltre ci sono anche due specie di pesci marroncini e grassotteĺli, che probabilmente sono erbivori e raschiano i sassi con la loro bocca larga di questi ne hanno presi pochi. Infine c’è una sorta di anguilla, grossa come una matita. Sono la specie più prelibata a detta loro, ma bisogna stare attenti alle spine retrattili che hanno nella pinna dorsale, che corre lungo tutto il dorso. Loro non si azzardano a prenderle senza usare uno straccio, solitamente il mio, quando in realtà erano morte stecchite e bastava afferrarle per la coda. Dopo la divisione dei pesci grossi, il resto si spartisce con il metodo arraffa arraffa, fino ad esaurimento scorte. Io li guardo sogghignando, con il mio bottino al sicuro nella bottiglia. È così che funziona in natura se c’è troppa competizione, piuttosto che diventare più forti conviene occupare ua nuova nicchia ecologica.
Ce ne andiamo, lasciando il sacco dov’è perché è così che si deve fare.
Torniamo a casa con il bottino e poi giù al bar, poi su in paese a comprare il besan, che sarebbe farina di ceci. La ragione è legata alla pesca, con i pesci piccoli mi è venuto in mente che si possono pastellare e friggere. Sarebbe pazzesco mangiare omini nudi in India, mi manca tanto il fritto misto. Gli ho spiegato anche in hindi che basta la farina normale, ma non c’è stato verso e quindi faremo i bianchetti con la farina di ceci. Scendendo, ci chiamano da un campo per andare a bere un bicchiere in disparte. Con noi c’è Sumit, che ha la mia età e insegna inglese, anche se sostiene che il proprio inglese sia proprio scarso. Sta anche studiando, tanto il lavoro di insegnante è saltuario e non basterebbe certo per sopravvivere. Suo padre tuttavia è un veterano dell’esercito e la sua pensione è sufficiente per tirare avanti. Sumit riesce a raggranellare circa 2000 rupie al mese, che corrispondono a 25 euro. È molto simpatico e vorrebbe viaggiare, mi fa un sacco di domande. Io come al solito consiglio di visitare l’Iran, data l’affinità tra farsi e hindi. Intanto la mia potente aura magnetica di angrej sta attirando altri passanti. (angrej si legge con la g eh!) Si ferma un altro bhai, un altro fratello, cioè un tizio qualsiasi che abita qui vicino. Così conosco Ashish Gorh, il figlio di quest’uomo, poi Gajpal e infine Rawat, il pittore. Rawat è un gran burlone e ride sempre, vuole che gli mandi subito una mia foto perché ha intenzione di farne un quadro quando torna in atelier a Kashipur. Scatto selfie con tutti e torno a parlare con Sumit, che è molto preoccupato che mi dimentichi di lui. Gli racconto del giornale di viaggio e si tranquillizza. Vuole rimanere in contatto per fare pratica con l’inglese, visto che qui è quasi impossibile. In effetti quello che gli manca è solo la pratica, perché stiamo parlandp da un pezzo e il vocabolario e la grammatica non gli mancano certo. Ripassiamo dal bar e ci fermiamo fino all’ora di cena. Continuano a offrirmi da fumare, ma io non fumo, come glielo dovrei spiegare?
All’imbrunire Kilari mi porta a casa perché ho scongiurato lui e le cuoche di farmi partecipare alla cucina. La cucina è proprio il focolare esterno, per terra. Per cucinare ci si siede accosciati su un panchetto alto tre dita, ma attenzione a non perdere l’equilibrio! A sinistra c’è la legna secca, a destra mi portano il pesce, il besan, un piatto e la scatola delle spezie. “Non so cosa farci, in Italia non usiamo le spezie in questo cibo.” Ci pensa la nonna a mescolare un po’ di sale e di spezie nella farina, altrimenti per loro non sa di niente. Mi distraggo un attimo per lavarmi le mani e trovo una pappetta di acqua e farina, perché qui si usa così. Mi faccio dare un altro piatto per la farina asciutta e parto a cuocere. Poco fuoco, troppo fuoco, poco fuoco, troppo fuoco. È difficile friggere con un olio che ha un punto di fumo così basso. A metà del pesce la nonna mi chiede se può sostituirmi, così la lascio fare. Fuoco al massimo e via, friggiamo tutto, anche l’olio.
Finito il fritto, le donne di casa iniziano a preparare il pesce. La base è l’olio di fritura, giustamente, qui non si butta via nulla. Cipolle, pomodori, spezie varie, i pesci grossi e tanta acqua per fare la zuppa. La prova d’assaggio è, come al solito, fenomenale. Non si assaggia dal mestolo perché è di metallo ustionante, si versa una goccia di zuppa sul palmo della manno e si assaggia con una leccata. La nonna è visibilmente soddisfatta, quasi meravigliata di questa bontà. Se ho intuito correttamente, qui le proteine animali si vedono di rado, poco importa come ce le si procura.
Nel frattempo io e la piccola Aradna sgranocchiamo i bianchetti, che sono venuti decisamente bene, wow! Mmh, non siamo tutti d’accordo qui, li sgranocchiamo solo io e mamma Urmila, lei sì che ne capisce. Come fece Börte a Sultanaği, Aradna parla parla parla, senza che io possa capire granché. Forse parla hindi, o forse è garwali, la lingua di questa parte di Uttarakhand. Non saprei dire, capisco solo alcune parole.
Dopo il pesce cuociamo il riso, nella pentola a pressione. Le pentole a pressione indiane non sono come quella che ho a casa, un oggetto sacro che viene trattato con più cura di un rover della NASA, perché è delicatissimo, con guarnizioni perfette e nuovissime e se cade è la fine del mondo. Qui la pentola a pressione è fatta di due soli pezzi, con una guarnizione e un coperchio con il manico e la valvola. Non si avvuta niente, il coperchio entra e poi si blocca agganciando i due manici tra loro.
Torna Kilari e mangiamo seduti a gambe incrociate per terra o sul letto di legno. C’è una quantità di zuppa di pesce notevole, tantissimo riso e i bianchetti dovranno aspettare domattina per essere finiti perché non ci stanno. Continuano a versarmi zuppa di pesce e riso, che pulisco diligentemente fino all’ultimo pezzettino. Le anguille sono effettivamente molto gustose, come immaginavo sono più grasse degli altri pesci ed è questo che le rende così prelibate.
Il riso che avanza come al solito viene scaricato in un piatto e la nonna lo porta alla capra chesta allattando. Mangiamo dagli stessi piatti, ma non è ancora morto nessuno. Noi intanto beviamo una tazza di tè e mangiamo il mango della sera. Non esiste che si finisca un pasto senza il tè, scherziamo?
Anche questa sera il cielo promette pioggia, si vede che il tempo sta cambiando e il monsone è in arrivo, finalmente. Si tira dentro la legna, si copre il focolare con la parabola. Io dormo nel lettonedi sopra e gli altri non lo so, devono aver inventato delle sistemazioni alternative.
Ok, dopo l’ottima gestione dei rifiuti anche la pesca sostenibile. C’è tanto bisogno di istruire le persone in ogni angolo del mondo.
Carissimo Riccardo, leggendo questo articolo ho sofferto, perché capisco, conoscendoti bene, la rabbia e la sofferenza che devi avere provato… sappi che l’ho percepita tutta leggendo il tuo racconto.