La voce di Bonni

Lezione di ieri: Se sei a rischio di essere borseggiato, stai in strada. (P.S.: richiede una buona preparazione in Iran.)
Giovedì 08/06/2022 10:10 Delhi (India)
Mi sveglio con Baba Deep Singh Ji che mi guarda dall’alto del proprio ritratto accanto all’armadio. Starò qui un’altra notte, quindi oggi posso girare per la città senza zaino.
È già piuttosto tardi e Sundeep deve andare in palestra, ma prima mi accompagna a cercare di nuovo di ottenere una sim, stavolta proviamo a chiedere una sostituzione per smarrimento. Ieri sera in cinque minuti abbiamo sporto denuncia online sul sito della polizia. Dato che la moto ieri è rimasta a secco, ci spostiamo a piedi e poi in tuktuk. Attraversando il parco con i cumuli di spazzatura, a quanto pare non l’ha raccolta nessuno ancora. C’è il wifi nelle strade, ma non c’è il servizio della nettezza urbana. D’altra parte è molto più semplice installare e manutenere la rete wifi piuttosto che organizzare raccolta, smistamento e smaltimento dei rifiuti.
La richiesta di una nuova sim è macchinosa, ma questa volta abbiamo tutti i documenti necessari. Il problema è che la vecchia sim è stata emessa in Kerala, perciò ci vorranno 24 ore per l’attivazione. Torniamo indietro con un altro tuktuk, spendendo venti rupie in meno perché abbiamo evitato all’autista di attraversare la strada.
Ci salutiamo e prendo la metropolitana con la tessera che mi ha prestato Sundeep, oggi vado a visitare la zona della città vecchia. Per prima cosa raggiungo il forte rosso a piedi, sgusciando veloce lungo i marciapiedi e in mezzo al traffico. Certamente do nell’occhio perché sono europeo, ma questo non fa di me un turista. Non sono ancora nella zona turistica e passo accanto alle dimore di chi vive sul marciapiede. Un telone di plastica buttato sopra una grezza struttura di legno è tutto quello che queste famiglie possiedono, insieme a un paio di piatti e una pentola. L’unico vero beneficio di vivere a Delhi è che almeno c’è lavoro per una paga quasi decente. Se non si trova neanche il lavoro, cosa resta?
Arrivo ad un’estremità della via che Sundeep mi ha consigliato per vedere la folla e le luci della vita notturna. Anche adesso è molto carina, cavo di tasca la gopro e scatto una foto. Tre, due, uno… “Hello sir, dove sta andando?” Mi hanno smascherato, dannazione! Rispondo che non mi interessa e mi dileguo tra la folla radunata davanti al Forte Rosso. Sembra che sia l’entrata principale, ma in realtà l’ingresso si trova a Sud, il chè giustifica la flotta di tuktuk in fila a bordo strada. Scatto un’altra foto, risvegliando un paio di autisti attirati dalla mia pelle chiara e ricca. Vi è andata male ragazzi, sono un visopallido squattrinato a cui piace camminare. Mentre cammino ammiro le doti di contorsionismo degli autisti dei tuktuk e dei risciò. Io chiamo tuktuk i mezzi a motore della Piaggio e risciò quelli a pedali. Gli autisti dei primi dormono all’ombra del tettuccio e sulle imbottiture della predella anteriore. Detta così non sembra male, ma lo spazio angusto li fa contorcere nelle pose più fantasiose. I pedalatori invece si sdraiano sul sedile posteriore e allungano le gambe accavallate fino a raggiungere il sellino. Dormono così, hanno imparato a non precipitare.
Alla biglietteria gremita di turisti c’è una corsia riservata agli stranieri, vuota. Un inserviente annuncia il mio arrivo alla cassa e vengo servito subito. Il biglietto costa seicento rupie e io ne ho in tutto 598, devo andare a fare bancomat. Non ho idea di dove sia il bancomat perché non ho internet, ma basta camminare a casaccio per trovarne uno ogni cinquanta metri. Il più è trovarne uno compatibile con la mia carta. Il terzo bancomat mi prende la carta in ostaggio senza dare più segni di attività. Nel marsupio ho un grimaldello adatto all’occasione, ma il dentino di metallo che blocca la carta è inamovibile. Forse è perché qualcuno lo ha progettato apposta. Nel frattempo ho fatto amicizia con il cliente successivo, così lo lascio di guardia mentre entro in banca a chiedere aiuto. Ci vorrà mezz’ora, a quanto sembra, poi ci ripensando e vengono subito a controllare. La macchina continua a non reagire, così la soluzione è staccare la corrente. La carta è libera, ma per riaverla devo compilare un modulo che spieghi l’incidente, con annesse fotocopie dei miei documenti, foto e tutto quanto. Un’impiegata ha pietà di me e mi restituisce la carta senza pretendere altro. Sopravvissuto indenne al primo incidente al bancomat, centro metri più avanti ritrovo il mio amico di prima, prelevo e torno indietro. Ma ci devo entrare al Forte Rosso o basta vederlo da fuori? Mi riecheggia in testa un vago ricordo della voce di Bonni, quando abbiamo parlato di Delhi. “Al Forte Rosso ci vai, vero?” “Non lo so, immagino di sì.” Magari me lo sto inventando, se ne abbiamo parlato è stato molto tempo fa. È tutta la mattina che ci penso e ormai mi sono convinto di aver sentito questa raccomandazione, perciò non ci sono dubbi. Entro nella stessa maniera di prima, saltando qualsiasi fila perché sono straniero. Si impegnano a trattarmi bene perché io per entrare pago parecchio e valgo quanto dodici indiani.
Come previsto, il forte rosso è proprio molto rosso, per via della pietra con cui è costruito tutto il muro di cinta e parecchie strutture interne. Subito dopo aver attraversato il lunghissimo ingresso coperto, trasformato in bazar, scopro un fatto inatteso e bizzarro. Il biglietto che ho pagato è stato a tutti gli effetti un furto, perché qui dentro l’attrazione principale sono io! “Possiamo fare una foto?” “Sì, non c’è problema.” Questo attira un altro indiano e un altrl ancora con la stessa richiesta. Soddisfo tutti e mi risiedo a osservare tutti i piccoli dettagli con cui è dipinta un’arcata rivestita di marmo. A quest’ora è con questo caldo ci sono così pochi indiani in giro che riesco anche a scattare qualche foto senza nessuno in mezzo. Visito con calma ogni piccolo edificio del forte, che contiene un grande giardino e molto edifici storici, bianchi e dipinti con immagini di fiori. Nei mesi estivi le stanze erano refrigerate grazie a un rivolo d’acqua convogliato in una scanalatura del pavimento. L’acqua inoltre alimentava vare fontane bianche situate tra i palazzi, è piacevole immaginare di sentirla scorrere con questa calura. È da due mesi che ogni tanto sento ripetere un luogo comune legato alla mia pelle chiara. L’Italia è in Europa, in Europa fa freddo, quindi in Italia c’è freddo. In India c’è caldo, io sono italiano, quindi in India ho caldo. Semplici sillogismi, che amo smontare con la solida realtà del fatto che in estate a Reggio Emilia si arriva a quaranta gradi, non tira un filo d’aria e c’è un’umidità tropicale. Lascio sempre i miei interlocutori sbalorditi. La pianura padana è stata un posto perfetto in cui crescere, mi ha abituato a +40 e -15°C, alla nebbia, alla neve e ai temporali. È vicina al mare, ai laghi e alle montagne, quindi so nuotare e so anche andare per monti, nonostante i lupi e l’uomo nero. Ma soprattutto e più di ogni altra cosa, mi ha abituato alle zanzare, maledette bestiacce infami e parassite.

Rapida rubrica dell’ecologo:

Mi hanno chiesto spesso a che cosa servono le zanzare, oltre che a ingenerare odio e prurito in noi poveri animali. Il fatto è che le larve di zanzara sono così morbide e saporite che in ambiente acquatico piacciono a tutti, sono come le caramelle. Le libellule, le rane, i tritoni, i pesci e più o meno qualunque bestiola più grossa di un centimetro cresce mangiando larve di zanzara come se fossero una gustosa pastina in brodo.

Fine della rubrica dell’ecologo.

Completo il giro del forte e vado a bere alla fontana pubblica, che speravo di trovare perché non ho alcuna bottiglia con me. Torno a bere una seconda volta per riempire del tutto la mia gobba da dromedario. Per stare al fresco mi siedo su una panchina di pietra all’ombra, che irradia calore come una stufa perché fino a qualche ora fa era al sole. Dopo cinque minuti mi chiama un tizio, seduto nel prato di fronte a me. Mi propone di entrare a visitare il museo insieme, ma il mio biglietto è solo per il forte e gli spiego che non posso entrare. Non capisce, insiste a chiedermi di entrare e io insisto a spiegargli che non posso. Viene a sedersi di fianco a me e mi fa le solite tre domande indiane. Io sto cercando di organizzare la mia prossima mossa e gli rispondo senza neanche guardarlo. “Vuoi fare foto noi?” “No non voglio, ma se è necessario fa lo stesso.” Si fa scattare un servizio fotografico dalla moglie e lascia spazio ad un altro passante. I seccatori se ne vanno con il bottino fotografico e io decido di andare a vedere la moschea Jama. Trenta metri dopo tre miei coetanei mi chiedono se sono disponibile per una foto. Così va molto meglio, apprezzo il garbo e la comprensione.
Mi sembra di essere allo zoo, dalla parte sbagliata della gabbia, un esemplare di Homo sapiens italicus a Delhi. Forse questi a casa hanno un album per collezionare le foto con i visipallidi. Altri cinquanta metri e sono quasi fuori, ma mi sento chiamare da dietro. “Hello! Helloo!?” Non mi volto finché sono sicuro che ce l’ha con me. “Ti va di fare una foto?” “No che non mi va, ma capisco che non è colpa tua se me lo hanno già chiesto in dieci.” Questo è comprensivo e capisce l’inglese, perciò oltre alla foto scambiamo anche due parole fuori dal recinto dello zoo. Ognuno prosegue per la propria strada, lontano dal forte e su per le scalinate della moschea. Ci incontriamo di nuovo venti minuti dopo, per un altro saluto. La moschea Jama ha uno stile che ricorda molto la moschea di Lahore, costituita da due ordini di volte sostenute da archi lobati.
Qui non ci sono i rubinetti per effettuare le abluzioni con l’acqua corrente, ma si attinge a una grande vasca centrale, quadrata. Il grande cortile lastricato all’interno del muro di cinta è nettamente troppo bollente per poterci camminare scalzi, perciò sono state predisposte delle strette strisce di tessuto per attraversare il grande spazio interno. Io stavolta ho tenuto le calze e si è rivelata una buona idea. Due ragazzi mi chiedono una foto e soffrono le pene dell’inferno per restare in piedi fuori dall’andirivieni dei visitatori.
Sui gradini del porticato ci sono vari cartelli che l’ingresso è vietato ai turisti. Innanzitutto io non sono un turista, ma un viaggiatore, inoltre sono credente e se fossimo in un paese musulmano nessuno si farebbe problemi. Il fatto è che gli indiani sono troppi e sono silenziosi come li italiani, cioè non hanno alcun controllo sul volume della propria voce. Entro e mi siedo per terra, come molti altri intorno a me. Nessuno si offende, come immaginavo, nonostante la mia pelle faccia luce.
Ti ricordi di quella vocale “ı” che si usa in Turchia? Bene. Esco dalla moschea dalla scalinata Sud, dove un uomo che vende non so cosa lancia instancabilmente il proprio richiamo pubblicitario. Una volta doveva essere un suono articolato, ma ormai si è contratto in un grido gutturale “ıhhh! ıhhh!” Sulla porta invece ci sono alcuni mendicanti, quello in prima fila è evidentemente cieco e ha già perso buona parte del naso.
18:30
Ormai mi pare che sia ora di mettere qualcosa sotto i denti per fare colazione, qui in zona ci sono alcuni posticini che mi ha consigliato Sundeep, che vendono cibo da asporto. Il problema è trovarli, in mezzo al caos di motorini, tuktuk e commercianti indaffarati. Mi infilo sotto il portico della stradina di fronte, un po’ annerito dalla sporcizia e dallo smog. Poco più avanti passo accanto ad un dentista, lo so per certo perché al momento il dentista sta effettuando un’estrazione nel proprio piccolo studio. Lui e il paziente sono seduti su una pezza stesa sul bordo del marciapiede, con accanto tre ferri posati con cura su un fazzoletto di tela bianca. Accanto a loro c’è il canaletto di scolo della via, ingombro di imballaggi e bucce di frutta. Oltre c’è la strada, piena di mezzi a motore che incensano l’aria coi propri motori d’epoca. Non è un gran posto per andare dal dentista, ma chi non può permettersi altro non ha scelta. Io ero venuto qui per mangiare, ma l’aria irrespirabile e il rumore mi hanno fatto cambiare idea. Ormai si è fatto abbastanza tardi da poter tornare indietro dal mio ospite, attraversando questo quartiere di mercato. Spostandomi nel fiume di veicoli ammiro un altro piccolo tratto di questa città indaffarata, per un paio di chilometri. Nonostante la mia posizione di vantaggio, mi attento a estrarre la gopro solo all’ultimo momento, prima di eclissarmi sottoterra.
Mi sposto con la metro verso Sud, per andare in un posto speciale consigliatomi dal mio cicerone. È una tomba monumentale costruita nello stesso stile del Taj Mahal, che si trova ad Agra. Ovviamente è molto più piccola, il ché significa che non è invasa dai turisti e la si può ammirare con calma e in silenzio. Il Taj Mahal l’ho già depennato dalla lista perché solo l’ingresso costa 25 euro e se pee costruirlo hanno speso troppo non è un problema mio. Inoltre ho l’impressione che nella città di Agra sia difficile campeggiare e si trova in direzione opposta all’Uttarakhand, che è la mia prossima meta. Niente Taj Mahal e viva la tomba di Safdarjung!
Nonostante le promesse di Sundeep, l’ingresso costa 300 rupie e ci devo tornare domani perché ho una missione da svolgere. Attraverso la strada per visitare il giardino di Lodhi. Si tratta di una grande zona verde vicina al centro si New Delhi, chs contiene alcuni mausolei e una moschea diroccata. In questa zona della città c’è meno traffico, le strade sono ampie, pulite e alberate. Non appena lascio la strada però sembra di non essere più in India. Anche l’aria sembra buona, grazie all’illusione creata dalla vista di tanto verde. Deve essere per questo motivo che molti residenti sono qui a fare attività fisica, malgrado nuoccia alla salute. Poco distante c’è un mausoleo a base circolare sopraelevata da alcuni gradini, circondata da un portico di pietra rossa e bianca. Sotto le arcate ci sono due sposi che fanno le foto nella luce rossiccia del tramonto. Una siepe quadrata circonda il monumento e in un angolo impantanato ci sono due ibis a caccia di lombrichi. Questi sono diversi da quelli bianchi di Vijapura, sono neri conle ali bluastre e un ciuffo rosso sulla testa.Fotografo tutti quanti e passo oltre, fino ad un altro edificio sepolcrale posto di fronte ad una vecchia moschea, al centro di un grande prato. Sulla facciata del mausoleo rosso sono rimaste ancora alcune delle piastrelle blu con cui era decorato. Finita la visita raggiungo l’estremità Nord del parco, passando accanto a qualche pavone. Prima dell’uscita c’è un laghetto con le anatre e gli aironi, ma ciò che lo fa assomigliare a Jurassic Park sono le volpi volanti, che di tanto in tanto svolazzano intorno per andare a bere un sorso d’acqua. Se ci fossero anche i coccodrilli sarebbe perfetto. Starei qui a lungo se non fosse per l’umidità tropicale, quindi proseguo a piedi verso la spianata che c’è di fronte al palazzo del governo. Ad un’estremità di questo giardino al centro di New Delhi c’è un arco, ma è circondato dai lavori in corso. La strada è comunque aperta, perciò tiro dritto come se niente fosse. Mi fermano le due guardie all’ingresso, perse in chiacchiere con un passante. Devo fare il giro tutto intorno, come immaginavo. Il problema è che anche dall’altra parte la situazione è la stessa, i lavori si estendono per tutto il giardino. C’è una folla di turisti indiani a farsi fotografare con l’arco sullo sfondo, perciò continuo a Ovest verso la fermata della metropolitana. In questo modo passo accanto a parecchi edifici di lusso, di proprietà del governo. La strada qui è quasi deserta, nonostante il sole sia appena tramontato. A quest’ora è lanzona del Forte Rosso a popolarsi di folla e Sundeep minha consigliato di tornarci verso le otto quando è piena di gente. Io non ci tengo perché per me era già abbastanza piena oggi pomeriggio sotto il solleone, meglio tornare verso casa.
Sundeep oggi è riuscito a consumare anche il secondo giorno di riposo, ma almeno ha accompagnato la madre dal dentista. È curioso di sapere che cosa ho fatto e dove ho mangiato, ma alla fine oggi non ho ancora mangiato. Il piano di riserva era tornare a casa e andare a mangiare in un altro posto consigliato. Qui fuori dal centro l’aria è meno sporca e il cibo sa di cibo. Il buon Sundeep è molto perplesso, non mi è facile spiegare che la necessità di mangiare passa molto spesso in secondo piano quando sto facendo qualcos’altro di interessante. Inoltre, come ieri sera, ho bisogno di qualcuno che faccia da garante. Se siamo in due, potrei mangiare anche un topo morto allo spiedo.
Alla notizia che non ho ancora mangiato niente si accendono le sirene e la mamma di Sundeep salta in piedi per correre subito a preparare la cena. Come ieri, andiamo a tavola sul letto matrimoniale della stanza accanto, nonostante la presenza di un tavolino. Non è strano che il tavolino venga ignorato, normalmente in India si mangia per terra a prescindere dal resto del mobilio. La ragione di questa scelta però è dovuta alla presenza del condizionatore nella stanza. Nonostante non ci sia alcuna porta tra le due camere della casa, qui c’è leggermente più fresco.
Stasera insieme al riso, chapati, lenticchie, okra e una strana salsa verde, stasera ci sono anche quei pezzetti di mango con mille spezie che mi piacciono tanto.
Dopo cena chiacchieriamo ancora per un’oretta, poi devo scrivere un minimo perché altrimenti è la fine.

1 commento su “La voce di Bonni”

  1. Pietro Lasalvia

    “e se per costruirlo hanno speso troppo non è un problema mio.”, Palla, con queste frasi m’ammazzi dal ridere ogni volta ahahah

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