Un’occhiata significativa

Lezione di ieri: Nei quartieri troppo ricchi non si può fare niente, perché il Grande Fratello ti osserva.
Domenica 04/06/2022 10:30 Lahore (Pakistan)
Dove sono finiti i miei vestiti? Ahmad ha saputo stamattina che la lavatrice ha avuto qualche problema, ma ora sono stesi al sole ad asciugare.
“Come al sole?!?” Scendo le scale a lunghe falcate per salvare le fibre sintetiche dai raggi UV. Giulio, Davo e io abbiamo speso cinquecento euro l’anno scorso, per cambiare un telo di PVC sgretolato dal sole. La luce diretta è esattamente quello che non ci vuole per la mia giacca che cerca ancora di essere impermeabile e per il telo azzurro che è spalmato di uno strato di plastica impalpabile. In generale, la plastica si distrugge a stare al sole, come testimoniano le bottiglie di plastica disperse in Iran, che a toccarle si sbriciolano.
I vestiti tratti in salvo puzzano, forse sono stati dimenticati in lavatrice in questi quattro giorni. Il sole ha scolorito solo un paio di mutande, poco male. Provo a infilarmi una maglietta, ma in pochi istanti Ahmad comincia ad annusare l’aria per capire da dove viene questo odore. Ho capito, rilaverò tutto a mano.
Restiamo a casa sua per qualche ora, poi bisogna salutare Hassan perché dobbiamo uscire. Schizziamo fuori di casa per andare a prendere Umair, comprare qualcosa come regalo per Saajit e andare a pranzo da lui, che abita lontano. Sono dieci giorni che in macchina ascoltiamo le stesse cinque canzoni di Ahmad, in particolare La La La di non-mi-ricordo-chi, quindi è giunto il momento di sparare nelle casse Remedy, la colonna sonora dei giorni trascorsi con Kamal a Ganja. Il volume non è sufficiente, ci penso io ad alzarmi al punto giusto quando gli altri sono fuori a fare acquisti. Il volume giusto si riconosce perché qualcosa in macchina comincia a vibrare. Io ho già comprato una torta per tutti, perciò arriveremo là con chili di cibo. La torta è costata dodici euro ed è tutto quello che ho speso in Pakistan, dato che il tampone riguarda le spese dei voli.
Per arrivare a casa di Saajit bisogna attraversare un arco con scritto “Città degli Ingegneri”. Sono perplesso, sembra l’ingresso al campus della Kafkas Universitesi a Kars, ma è meglio se chiedo spiegazioni. Sulle prime non capisco, e sulle seconde continuo a non capire, il concetto di base mi è troppo alieno. Praticamente il suolo intorno a Lahore è stato suddiviso in distretti e venduto a privati cittadini, i quali si occupano di amministrare i distretti stessi. Ogni distretto, chiamato “town”, è stato poi suddiviso in lotti, in base alla pianificazione urbanistica. Da qui in poi la faccenda è semplice coma giocare a monopoli, chi può permetterselo inizia a comprare terreni e a rivenderli. Forse è per questo che il prezzo del terreno costituisce i due terzi del costo della casa nuova della sorella di Ahmad.
È molto strano questo posto, la città degli Ingegneri è stata inaugurata abbastanza di recente e per ora è stato edificato un lotto su dieci, in ordine totalmente casuale. Inoltre è una zona piuttosto costosa e di conseguenza chi se lo può permettere ha costruito delle villette di tutto rispetto. Per la strade ci siamo solo noi, in questa specie di paesino costruito all’interno del muro di cinta, in maniera alquanto surreale per me. Sembra di visitare il set in costruzione del film Truman Show. Ci fermiamo davanti ad un pratino curatissimo, accanto a una villetta bianca a due piani. Saajit è già sulla porta ad attenderci mentre il portiere ci dà due dritte per parcheggiare nel poco spazio disponibile. Il giardinetto interno è decorato con piccole palme, testimonianza del fatto che Saajit si è trasferito qui appena sei mesi fa. Dato che i vicini di casa non sono abbastanza vicini, il muro che circonda il giardino è sormontato da un recinto elettrificato. Il prato ha qualche chiazza leggermente giallognola, indice che viene irrigato in maniera intelligente, cioè non abbastanza da far proliferare le zanzare. La maniera intelligente di irrigare è assolutamente soggettiva, è lecito preferire un prato verde brillante in cui imperversano nugoli di zanzare tigre.
Il padrone di casa ci fa accomodare in salotto con un bicchierone di succo di frutta rosa, lo stesso che ho assaggiato il primo giorno a Lahore. Facciamo due chiacchiere mentre arriva la prima portata di antipasto, una specie di yogurt con pezzi di frutta. Non è normale che il pasto sia organizzato in portate, ma c’è così tanto da mangiare che il tavolo non basterebbe. Nella stanza c’è anche un tavolo, nel senso europeo del termine, ma oggi mangiamo comodi comodi sui divani disposti a quadrato intorno a un tavolino di vetro. Insieme a noi c’è anche un altro amico di Saajit, che capisce l’inglese ma lo parla poco poco. La prima volta che ha aperto bocca, la conversazione è slittata al punjabi, permanentemente. Ho ricominciato a studiare i numeri. Il problema delle loro conversazioni è che sono infarcite di termini inglesi, ma sono sempre parole inutili che non mi lasciano intendere un bel niente. Mi pare di capire che parlino dell’Italia e chiedo una traduzione. Ci prova Ahmad “Stanno dicendo che…” Fine dell’attenzione, gli altri hanno ripreso a parlare di qualcosa di interessante. Mi guardo intorno cercando di incrociare uno sguardo e trovo Saajit, che mi spiega che…. Niente, qualcuno lo ha interrotto dopo due parole, interpellandolo. Appurato che non c’è modo di fare breccia nel punjabi, mangio. In fondo Saajit ci ha invitato per il pranzo, non per delle chiacchiere.
Improvvisamente mi sento chiamare: “Mister Riccardo, perché le persone in Italia non vogliono parlare inglese?” Questa è la solita storia che Ahmad racconta sempre, ce ne siamo lamentati per anni e adesso succede lo stesso qui in Pakistan. Qui è ancora più grave perché i pakistani conoscono molto più inglese degli italiani, ma cerco di restare calmo. “Loro, gli italiani, studiano l’inglese a scuola e poi non lo usano più, perciò per la generazione dei miei genitori spesso non lo parla affatto. D’altra parte anche qui in Pakistan la gente non usa l’inglese, anche se ognuno afferma di parlarlo fluentemente. Ho parlato di “loro, italiani” perché io personalmente non parlo italiano se questo esclude qualcuno dei presenti. È per una questione di inclusività e trovo offensivo e irrispettoso non farlo.” È meglio che mi fermi perché altrimenti ci vado troppo pesante. Il messaggio dovrebbe essere passato, anche se la conversazione prosegue invariata in lingua punjinglese.
Finita la mangiata, incluso il dessert e il tè, che segna la fine dei pasti. Anche qui in Pakistan, così come in India, è un sacrilegio bere l’acqua dopo il tè, fa male alla salute. Ho fatto in modo di bere un litro d’acqua prima del tè, perché una volta iniziata la tazza non si torna più indietro. Usciamo per fare un giro in macchina, andiamo a salutare gli impegati dell’ufficio che vende i lotti della Città degli Ingegneri. Mentre gli altri conversano io studio il piano di cementificazione esposto sul tavolo, con tutta la pianta della futura città. C’è qualche piccola macchiolina di verde, scuole e moschee per tutti e una piccola zona dedicata ai negozi. Adesso è ancora un posto spazioso, ma una volta finita sarà tappezzata di case.
Finito il pranzo portiamo a casa Umair e andiamo a salutare il professore che ha aiutato Ahmad a perfezionare al massimo l’inglese, in vista dell’esame appena sostenuto. Quando bisogna scrivere 400 pagine praticamente di getto in sei giorni, serve una certa preparazione. Lo studio di questo professore è sostanzialmente una stanza con una dozzina di sedie disposte su due file, un tavolo con qualche altra sedia intorno e un paio di ventilatori. Ah, è anche tre gechi sulle pareti, ma non si possono prendere perché in Pakistan non sta bene fare queste cose da pazzi. O forse Ahmad mi ha detto di non farlo in pubblico perché lui stesso è disgustato da quelle bestie lì.
Il professore è un uomo flemmatico e disponibile, ma al momento è piuttosto impegnato perché ci sono tre studenti. Ahmad gli esprime la propria gratitudine e poi proseguiamo oltre, nella casa del professore, a salutare anche la moglie. Questa è intenta a pelare cetrioli, seduta ad un grande tavolo ricoperto di oggetti in disordine. La stanza è altrettanto ingombra di oggetti, incluso un grosso gruppo di batterie che si stanno ricaricando dopo l’ultimo blackout.
La signora è molto gentile e svolge il ruolo di consulente post-esame, perché ascolta le insicurezze del nostro Ahmad e cerca di tirargli su il morale. Ci vuole qualcuno che dall’esterno ti ricordi quanto casuale sia la selezione dei vincitori, che sono i candidati che hanno indovinato quello che la commissione voleva leggere. Nel frattempo io ripasso i numeri e sorseggio il tè, ma la signora ha anche un po’ di riguardo per me, mi rivolge qualche domanda. Mi spiega che la ragione per cui Lahore non ha un centro storico è dovuta alla sua funzione di crocevia nel Sud dell’Asia, che l’ha resa oggetto di continue conquiste e riconquiste.
20:00
È sufficiente, ora ritorniamo dalla sorella di Ahmad per una seconda visita.
Credevo che fosse una seconda visita, in realtà dopo mezz’ora e un tè mi dicono di scendere. Pensavo che stessimo andando a fare un giretto fuori, invece in realtà la nostra visita è già finita perché siamo venuti solo per salutare e caricare in macchina gli scatoloni del nuovo condizionatore, che entra a filo nella Civic. Lahore è piena di macchine bianche e di Honda Civic e Honda City. Questa è una Civic bianca, nuova.
A casa arriva anche il tecnico per montare il condizionatore, Ferzaad e un altro amico di Ahmad che ha fatto l’esame il mese scorso. Mentre aspettiamo che il tecnico completi l’opera, io scrivo e gli altri conversano in quella loro dannata lingua incomprensibile.
È andata via la corrente e il tecnico deve andare da un altro cliente, perciò ci diamo appuntamento dopo mezz’ora e noi usciamo a cercare una cena. Il nuovo venuto compra una confezione di tramezzini come quella di qualche sera fa. Passiamo anche a comprare il latte, perché i tramezzini richiedono il tè. Faccio risparmiare ben dieci rupie perché ho tenuto la borsina di plastica dei tramezzini di prima, che è uguale a quelle del supermercato, ma Ferzaad rimane stupito di questa astuzia. I motivi sono due. Innanzitutto, bisogna sapere che il Pakistan ha bandito le borsine di plastica monouso, così come ha fatto l’Unione europea. Questo significa che le borsine sono comunque di plastica e tendono a bucarsi, ma per dargli un aspetto diverso sono fatte di tessuto non tessuto. Il secondo motivo sta nell’approccio alla raccolta differenziata, che varia a seconda delle occasioni. Se sei a piedi appoggi i rifiuti a lato della strada, mentre se sei in macchina lanci tutto fuori dal finestrino, poi qualcuno raccoglierà i rifiuti, tanto qualcuno abbastanza povero da raccoglierli lo si trova. Abbiamo preso parecchie bibite e cibo da asporto in questa settimana, quindi ho visto lanciare in giro un po’ di tutto. Se lo vedesse il professor Chiarucci, lo stesso che gli ha conferito la laurea in ecologia, saprebbe bene che uso fare di quelle lunghe canne che ci sono nelle aule dell’orto botanico.
Rientriamo alla base insieme al tecnico, nei simpatici 35°C che ormai per me sono diventati la normalità, finché finalmente avviene il miracolo e torna la corrente. Il tecnico è tornato con un pezzo di filo per raggiungere la presa, che è un po’ lontana. Spela le estremità, attorciglia le anime di metallo, nastra tutto e l’impianto è finito. Me l’aspettavo perché ho già visto altri cavi uniti così, qui il saldatore è un oggetto tecnologico che si usa solo nell’industria spaziale. Meno male che qui ad assistere non c’è mio papà, “ch’l’è un ragâs precîs”. Il tecnico qui avrà due dozzine di attrezzi in tutto, vecchi e rugginosi. Quando torna a lavorare all’esterno gli presto la torcia frontale, così quando torna chiede ad Ahmad di portargliene una dall’Italia, perché qui non si trovano.
Sono le due e il condizionatore è a posto, Ahmad propone di andare a letto, ma sono pronto a ribattere con la richiesta che sto reiterando da stamattina, perché per andare in India ho bisogno di un altro test PCR. Qui in Pakistan bastano otto ore per avere il risultato, ma prima di volare a Karachi vorrei sapere se potrò proseguire o no. Dovrebbe essere facile perché c’è un intero quartiere che fa test 24 ore al giorno, ma non è mai così facile e ci mandano da un’altra parte della città, nella clinica principale, che però non è quella giusta e bisogna andare nell’edificio accanto. Mentre comunico i miei dati e gli estremi del volo Ahmad scambia due parole con l’operatore, aggiungendo un’occhiata significativa. Io non mi sono accorto di niente e rimango stupito quando il tampone mi sfiora appena la narice destra, poi la sinistra e basta. Una volta fuori, Ahmad mi spiega di aver detto qualcosa del tipo: “Non vogliamo che si dica che il Pakistan è un paese che mette in difficoltà i turisti, vero?”
Non ci sono rischi di essere positivo, posso dormire sonni brevi e tranquilli. Contavo di arrivare ben riposato alla vigilia del viaggio di ritorno in India, ma a quanto pare sarò in debito di sonno. Non fa niente, ormai è andata.

3 commenti su “Un’occhiata significativa”

  1. “Perché le persone non vogliono parlare inglese” è un tema più che internazionale, e tiene banco anche in Francia, come ho potuto appurare facendo chiacchere con alcuni ragazzi francesi😂

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