È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…

Il ritardo sta diventando abissale, quindi ho deciso di prendere una scorciatoia e riportare un po’ di notizie fresche su queste pagine, perché è più facile scrivere il resoconto di ciò che è appena successo. Colmerò il buco pian piano, spero.
Lezione di ieri: Non è bene addormentarsi a casaccio nei campi.
Giovedì 26/05/2022 6:10 Rangarh (India)
Troppe stramaledette zanzare, ma perché dormiamo con la porta socchiusa? Tra le punture di ieri e quelle di stanotte mi sto grattando come una punta di formaggio.
Adesso c’è già luce fuori, anche se ho dormito molto poco esco per mettermi in salvo. In un minuto vengo attorniato da una ventina di agopuntori volanti e capisco che si stava meglio dentro. Torno a sudare sotto la coperta morbida, che non mi fa grattare quanto la mia zanzariera ispida. Non mi gratto solo io, ma sicuramente i viaggiatori europei attirano tanto gli indiani quanto i Culicidi (che sarebbero le zanzare).
Alle otto e mezza fa abbastanza caldo per uscire in sicurezza. La madre di Hunar mi porta per colazione un termos di tè e un vassoio di fette biscottate al cumino, insieme a dei bagaglini di sfoglia unti e buoni. Preparo lo zaino e annuncio la mia partenza, ma prima dobbiamo fare un po’ di foto. È il minimo che possa fare, facciamo un servizio fotografico e poi mi carico in spalla lo zaino per partire. Va bene, ma prima facciamo un po’ di foto.
Mi offrono la colazione ma è meglio che vada, rifiuto abbastanza volte da convincerli che devo proprio andare. Dopo le tre cene di ieri me lo aspettavo che ci fossero due colazioni. Parto, ma prima facciamo un po’ di foto con ciascun familiare. Facciamo anche un po’ di foto con ciascun telefono. Anche un po’ di foto in ciascun angolo del cortile.
Ora possiamo andare, come immaginavo è prevista la consegna a domicilio in moto, perché la frontiera dista cinque chilometri. Però è meglio fare anche un po’ di foto.
Monto in sella con Hunar, ma in mezzo si aggiunge anche Sukhchain. Partiamo davvero. “A som cômed come trî in ‘na scrana”, come si dice dalle mie parti, Siamo comodi come tre su una sedia.
11:10
Un grande saluto e via verso il cancello, per iniziare la traversata della frontiera tra paesi nemici. Stavolta alla gabella d’ingresso mi controllano il passaporto e mi lasciano passare, spiegandomi la procedura in inglese: “Okay sir, inside.” Non ridete, in una nazione dove la lingua ufficiale è l’inglese, tre parole sono già meglio di due.
All’edificio si accede dal lato ovest perché in un edificio simmetrico entrare da davanti sarebbe una scelta eccessivamente  razionale.
Al bancone dell’emigrazione presento l’autorizzazione di viaggio che ho ricevuto per email, ma non va bene. È esattamente analogo al documento con cui sono entrato in India, ma dicono che non va bene e mi fanno sedere mentre cerco di capire dov’è il problema. Non posso accedere al sito dell’immigrazione pakistano, ma per fortuna la centrale operativa “Ahmad” è pronta a risolvere il caso in un minuto.
Adesso ho il visto e posso entrare nella terra di nessuno con il timbro di uscita dall’India. “Lo sai che non puoi rientrare in India, vero?” Intendono dire che non posso rientrare attraverso questo confine, che non mi è affatto nuovo. Vado a passare lo zaino sotto il metal detector per un controllo finale, ma proprio nello stesso momento l’operatore se ne va, torna tra poco.
È tornato tra molto, ma almeno è tornato. È perplesso sul contenuto dello zaino, ma non fa domande e mi lascia andare. Giro l’angolo e c’è il secondo controllo finale dello zaino. Apro la zip laterale, tolgo la borraccia e la giacca. Lì sotto c’è in bella vista il mio trasmettitore satellitare giallo, che non ho intenzione di estrarre, se non su richiesta. Questo modello è legale in India, ma spiegarlo sicuramente non sarebbe facile. “Che cosa devo fare?” Il poliziotto è soddisfatto e mi lascia richiudere tutto.
Posso salire sulla navetta che porterà noi sciagurati verso la terra del nemico. Partiamo, con l’ingresso dell’autobus ingombro di valigie enormi. Le valigie sono salite per ultime, quindi scenderanno per ultime e all’arrivo le scavalchiamo pee uscire.
Sono il primo a raggiungere il cancello, presidiato da due energumeni in divisa mimetica, in piedi al centro dell’arena che rende famoso questo confine. Immagino le due gradinate a semicerchio piene di fragorosi indiani e pachistani, inneggianti alle rispettive nazioni. Non le ho viste durante la parata quotidiana, ma ieri ero decisamente troppo stanco per tornare indietro e assistervi.
Dal lato pachistano arriva un gruppetto di uomini, donne e ragazzi vestiti poveramente. Portano dei sacchi di mercanzie e per qualche ragione possono attraversare i cancelli contromano. Siamo pronti, i prestanti soldati spingono via due cancellate pesanti quanto un’automobile e lungo migliaia di chilometri di confine indo-pakistano si apre un varco di un metro. I pakistani attraversano la riga bianca per terra, poi la attraverso io e dopo questo scambio di prigionieri i cancelli si richiudono. Il soldato mi saluta con “Welcome to Pakistan”, che letteralmente significa “Benvenuto nella Terra dei Puri”.
Scatto una foto e sotto il sole delle 13 mi avvio a piedi all’ufficio immigrazione pakistano. Là insieme a me c’è una dozzina di viaggiatori indiani e pakistani in attesa. Ci sono addirittura sei banchi, ma solo due sono aperti per non esagerare con l’efficienza. Per fortuna qui parlano bene inglese e mentre verificano il mio visto mi chiedono di sedermi da una parte mentre fanno passare gli altri viaggiatori in attesa.  Vicino ai banconi c’è un uomo che cucina il pranzo: appena è pronto tutte le attività vengono sospese per la pausa pranzo. Uno dei due doganieri mi informa di questa breve interruzione di dieci o quindici minuti, aggiungendo : “Vuoi da mangiare anche tu? Per favore dì di no, dì di no!” Rifiuto gentilmente, ma quando anche il suo collega mi fa la stessa offerta decido di accettare per vedere che cosa succede. Sarebbe incredibile ricevere da mangiare anche alla dogana persone.
Come sospettavo, dieci minuti nella stanza da pranzo corrispondono a trenta o quaranta minuti sul sistema Terra, dove gli effetti della relatività sono considerevoli, senza contare che il pranzo include imprescindibilmente anche una tazza di tè.
Mentre i bambini si divertono a giocare con il mio cappello e con il bastone da viaggio, il pranzo finisce e il personale si rimette al lavoro, uno alla volta. Nessuno mi ha in nota e torno per l’ennesima volta a chiedere se ci sono novità. Non ce ne sono, ma uno dei due doganieri parla fitto con una donna che porta l’hijab, per poi riferirmi che stanno aspettando che l’ufficio dell’immigrazione di Islamabad confermi la validità della mia autorizzazione di viaggio, che nin costituisce un visto vero e proprio. Torno a sedermi mentre qualche altro viaggiatore mi passa davanti.
Finalmente qualcuno si accorge di me, ha pietà e mi fa segno di entrare in una stanza dietro i banconi. Forse è la procedura normale perché io sono speciale.
Entra con me quello che prima mi ha offerto il pranzo, il primo dei due. Apre la finestra di un programma in stile Windows 2000 e inserisce il mio codice. Nessuno ha ancora verificato un bel niente a quanto pare, ma grazie per le due ore di attesa. Lui indica la scritta “Status: Processing” (Stato: In elaborazione) mi guarda e aggiunge: “Your visa is not granted” (Il tuo visto non è garantito)
“Questo significa che devo aspettare ancora?”
“No, significa che non puoi entrare.”
In queste due ore ho ponderato attentamente la mia risposta a una frase del genere, perché bisogna sempre aspettarsi il peggio dalla burocrazia.
“Mi prendi in giro?”
Non mi prende in giro, dice che evidentemente il ministero non ha ancora approvato il mio visto e non si sa quando lo farà. Se non avessi fatto richiesta un mese fa potrei quasi crederci. Contemporaneamente Ahmad scalpita per sapere che cosa sta succedendo e vuole parlare personalmente con quest’uomo. Ahmad è nato per fare il diplomatico, ma a quanto pare i suoi suggerimenti hanno solo l’effetto di offenderlo. Facciamo che ci parlo io, almeno sa l’inglese.
“Che cosa si può fare in questi casi?”
“Niente, bisogna aspettare che il governo approvi il visto. Devi tornare indietro.”
“Non posso tornare indietro, dall’altra parte lo hanno specificato chiaramente, e poi se come tornare in Pakistan se non so quando il visto sarà approvato.”
“Mi dispiace, qui dice che il visto non è garantito. Che cosa dovrei fare?”
“Si può telefonare all’ufficio che si occupa dell’approvazione per sollecitare o per chiedere che cosa è andato storto, il visto dovrebbe essere rilasciato in 48 ore ed è passato un mese.”
“Perché ti dovrei aiutare in cambio di niente?”
“Perché è questo che fanno le persone, si aiutano.”
“Nessuno di aiuta in cambio di nulla”
Aspetta aspetta, che cosa intende dire? Mi sembra una richiesta abbastanza chiara la sua, ma temo che abbia trovato la persona sbagliata.
“Sbagliato, sono sette mesi che viaggio e ho incontrato un numero incalcolabile di persone che mi hanno aiutato senza chiedere alcunché. Non ho intenzione di offrirti alcuna tangente, se vuoi darmi una mano bene, altrimenti non penso che tornerò mai a visitare il Pakistan.”
“Non accetto niente del genere, sono un uomo ricco e non accetto alcuna tangente.”
Ma allora che cosa diavolo vuole? Inizia a farmi qualche domanda sul mio lavoro, i miei studi, il mio amico in Pakistan, la mia fidanzata o il mio fidanzato. Domande generiche come quando sono in macchina con qualcuno, domande inutili. Entrano tre uomini, salutano, si stringono la mano e si abbracciano, fanno due chiacchiere a sedere e poi questi si alzano e se ne vanno. Nel frattempo il tizio qui si è voltato verso il computer e sta inserendo manualmente alcuni dati. Clic clic clic, vedo uno “Status: Completed” (Completato), stampa e mi passa un foglio sbiadito che dovrebbe essere il visto. Come ha fatto? Quindi il problema qual era? Posso passare adesso? Importa solo l’ultima domanda, e la risposta è sì. Aggiunge che mi ha fatto un favore e usciamo per completare le formalità di ingresso. In realtà c’è qualcosa che posso fare per lui, cioè far sapere ai lettori qui che cosa ha fatto per me. Pare abbastanza soddisfatto e gli chiedo anche il numero di telefono. Magari se ci rivediamo fuori di qua un pranzo glielo posso offrire. Rifiuta, dice che sarà lui a offrirmi il pranzo perché sono ospite del del suo paese.
Mi dirigo a lunghi passi verso un tavolino dove devo registrare di nuovo i miei dati. Intanto presto il telefono a una signora indiana che deve telefonare. Era sulla navetta con me, ma lei e la sua amica sono ancora qui. Poco dopo mi chiama Ahmad, ma ora la priorità è uscire di qui e metto giù.
15:40
Vengo rilasciato dopo appena quattro ore e mezza, finalmente libero. Lungo la strada di uscita, ironicamente, c’è la voliera dei piccioni utilizzati dalla dogana per comunicare con il ministero dell’immigrazione a Islamabad. Ora capisco perché ci vuole una vita a passare.
Supero l’ultimo cancello e mentre ricomincio a respirare avvisto in lontananza  un visopallido con lo zaino. Allungo il passo prima che scappi e trovo Ruben, un viaggiatore spagnolo. Non è un viaggiatore qualsiasi, ma un personaggio d’eccezione che ha anche scritto un libro sui propri primi cinque anni di viaggi. Adesso è diretto al confine per assistere alla parata, poi andrà a Peshawar per cercare di ottenere il visto dell’Afghanistan e visitare Kabul. La ragione è che intende visitare tutti i paesi del mondo, e gliene mancano solo una manciata. Ha lasciato indietro alcuni di quelli più difficili: Afghanistan, Iraq, Siria e il costoso Bhutan, che richiede 200 dollari al giorno. Il suo zaino è decisamente essenziale, probabilmente è da appena trenta litri. Ora è praticamente vuoto perché ha lasciato buona parte dei vestiti in albergo. Dice che lo zaino che portava all’inizio era come il mio, ma nel tempo si è ridotto. Ha iniziato a viaggiare dieci anni fa, incentivato dalla crisi economica. La banca per cui lavorava doveva fondersi con altri istituti e operare dei tagli del personale, perciò  ha offerto una somma cospicua a chi ha lasciato il lavoro. Ruben Arnal ha colto l’occasione e ha comprato un pacchetto di voli per fare il giro del mondo. Gli Stati Uniti non rilasciavano il visto con più di dieci mesi di anticipo, quindi Ruben ha completato il viaggio in nove mesi. È stato il periodo più lungo in cui è stato via da casa, anche se da allora ha continuato a viaggiare. In un viaggio ha percorso la costa occidentale dell’Africa dal Marocco all’Angola, praticamente correndo perché stava per scadergli il visto per l’ultimo paese. Lungo la strada ha conosciuto un viaggiatore giapponese in moto e hanno percorso un lungo tratto insieme attraverso il Sahara, per poi separarsi e incontrarsi di nuovo ad Accra, in Ghana. Alla fine è arrivato in Angola dopo sei mesi a pochi giorni dalla scadenza del visto. Ho troppe domande per pensare di ordinarle e scegliere le più importanti. Mi faccio raccontare chi è il viaggiatore più pazzo che ha incontrato durante le proprie peripezie. Il premio lo vince un americano  incontrato in Georgia, che comprò un asino per raggiungere il Vietnam via terra. Ebbe scarso successo, l’asino è morto dopo un paio di settimane e il viaggio è naufragato. Sono curioso di sapere che cosa succede ogni volta che rientra a casa, ma non è il tipo da organizzare ogni volta una festa.
Mentre chiacchieriamo seduti all’ombra, il capannello di autisti di tuktuk vuole scattare mille foto insieme a noi, perciò ci interrompiamo ogni due minuti.
Ormai è ora che vada perché Ahmad è sempre là che mi aspetta e mancano solo 30 chilometri dei 3700 da Kochi a casa sua. Non ho rupie pakistane, entrambe le carte di credito sono vuote e ho solo centocinquanta rupie indiane. Sono troppo poche per arrivare a metà strada, quindi mi incammino. Dopo due minuti mi raggiunge un ciclomotore cassonato con a bordo Nabil, Visil e Sajel, tre ragazzi. L’autista Alladetah mi offre un passaggio gratis lungo questa strada infinita. Benvenuti in Pakistan.
Sei chilometri dopo scendo, ma prima di subito appare un tuktuk giudato dalla versione pakistana di Turlea, uno dei più grandi promotori di questo viaggio. Si chiama Mutassir Ajish e non si scompone affatto quando gli spiego che non ho un soldo bucato. Mi porta fino alla circonvallazione, mentre sono incastrato con lo zaino e il bastone sul sedile davanti.
Scendo ringrazio e riparto a piedi, ma dopo duecento metri si ferma una moto. L’uomo che la guida mi chiede dove vado e si offre di darmi un passaggio. Parla solo urdu e abita qui a tre chilometri, ma insiste per portarmi fino a Faisal town, il quartiere di Ahmad. Salgo in moto e facciamo due chiacchiere lungo la via. Non si aspetta alcun compenso, indica per aria e dice “Solo Allah”.
Poco più avanti passiamo accanto ad un’altra moto ferma a bordo strada, accanto a una donna giovane che si dimena per terra. L’uomo che guida la moto sta cercando di sollevarla strattonandola per i capelli, mentre alcune persone poco distanti sembra che stiano chiamando la polizia. Il mio autista decide di non fermarsi e proseguiamo oltre. Si ferma per comprarmi una bibita e non c’è modo di rifiutare. Lungo la strada mi racconta che ha cinque figli, ma non riesco a capire che lavoro faccia. Si ferma più avanti per farmi vedere il contenuto di una borsina di plastica, con dentro un’altra borsa di cotone tutta sporca, con dentro uno zainetto sgualcito, con dentro una manciata di biro e di altre cianfrusaglie cinesi. È questo che vende, difficile sfamare una famiglia vendendo penne a sfera.
Ripartiamo e lungo la strada mi chiede se per caso ho qualche moneta dell’Italia, se gli posso mandare un pochino di soldi dall’Italia. È  difficile spiegare che l’Italia per me è ancora lontana, ma ci scambiamo i contatti e lui ritorna a casa.
Mancano solo cinque chilometri e prima ancora che possa chiedere a qualcuno di fermarsi, un avvocato mi saluta e mi chiede come sta andando l’autostop. Mi spiega che si capisce che è un avvocato perché in Pakistan solo gli avvocati hanno la camicia e la giacca nera come lui. Ha una faccenda da sbrigare per dieci minuti, ma poi mi può portare lui da Ahmad. Dato che è il mio primo giorno in Pakistan, insiste per offrirmi una bevanda di benvenuto. Sorseggiamo un bicchiere di succo di bacche viola che si chiamano falsa, poi va a sbrigare le proprie faccende.
Passano dieci minuti, ne passano venti, un signore cerca mille volte di offrirmi di nuovo da bere, passa mezz’ora e l’avvocatoancora non si vede. Me ne vado, torno in strada, fermo una macchina e in un baleno sono arrivato. Kasif e Shani sono due giovani giornalisti che lavorano qui in città, mi lasciano un biglietto da visita e mi faccio lasciare cinquecento metri prima dell’arrivo, così almeno cammino un po’. Sbagliato. Quando sono quasi arrivato, un altro tizio insiste per portarmi fino al posto giusto. La strada è chiusa alle macchine, quindi invece di duecento metri ne percorriamo ottocento, ma in capo a un’ora e mezza sono arrivato a destinazione. Nonostante le sue buone intenzioni, quest’ultimo risulta un seccatore, ma non importa, sono arrivato.
Il cancello bianco del civico 69 A è davanti a me e un attimo dopo sento una voce amica che dice “Come in bro!” (Vieni dentro fra!).
È proprio lui, non so come faccia ad essere qui ma è proprio lui! L’odissea è finita.
Saliamo nel suo appartamento, una stanza con letto, scrivania, cucina e uno specchio enorme. È piccolo ma c’è tutto e solo lo stile delle sedie e delle tende tradisce il fatto che siamo in Pakistan.
È tutto troppo surreale, io l’ho lasciato decine di migliaia di chilometri dietro di me e improvvisamente mi ritrovo di nuovo davanti al buon Ahmad. Che tunnel spazio-temporale ha attraversato?
Adesso è meglio che faccia una doccia, così poi usciamo a mangiare. Passiamo a prendere il suo amico Umer e andiamo al ristorante a mangiare cinese. Prima del cibo, il cameriere porta un piatto con le nostre posate. Prendo in mano incuriosito quello che sembra essere un autentico arricciaspiccia, ma mi spiegano che si usa per portare il cibo alla bocca. Dopo tre settimane di India mangiare a mano è diventato così naturale che l’uso della forchetta mi pare proprio scomodo. Finalmente capisco quello che cercavano di spiegarmi Meeraj e Nijil la prima sera in Kerala, quando gli ho chiesto perché mangiano con le mani nonostante esistano le posate. Avevano ragione, le dita sono molto più precise ed efficienti nel mescolare gli ingredienti nel piatto, senza contare che non bisogna prenderle in mano ogni volta. Il cibo è lì, tu lo prendi e lo mangi, è semplicissimo e “se non ti lecchi le dita godi solo a metà”.
Umer è a sua volta reduce dallo stesso esame di Ahmad, il concorso nazionale per diventare prefetto, o qualcosa del genere. Qui in Pakistan la carica amministrativa si chiama “commissioner” (commissario) ed è particolarmente ambita, tanto che ci sono 320.000 candidati per 200 posti di lavoro. L’esame consiste in sei giorni di scrittura furiosa, circa 65 pagine al giorno riguardanti temi di politica interna ed estera, scenari geopolitici e amministrazione territoriale. Dieci ore al giorno per sei giorni, preceduti da due settimane di allenamento preparatorio.
Sono un po’ provati, infatti quando ci trasferiamo in un bar ad incontrare altri amici, Ahmad inizia a dare segni di cedimento. Come me del resto, che nelle ultime due notti ho dormito pochissimo. Prendiamo un tè per tirarci su, perché il tè dopo i pasti è una necessità fisiologica che qui causa più dipendenza del tabagismo.
Al tavolo si parla urdu, perciò la mia principale attività è guardarmi intorno, studiando questo nuovo mondo in cui sono capitato. Mi stanno già chiedendo che cosa penso del Pakistan, ma sono arrivato sei ore fa e non ne ho idea.
Sicuramente non ho mai visto una città con la circonvallazione piena di aquile e buceri, mentre qui è del tutto normale. In Pakistan il clacson si usa pochissimo, anche se loro non lo sanno perché non sono mai stati in India.
Nei ristoranti non ci sono le caraffe dell’acqua, l’acqua è solo in bottiglia e si paga. Inoltre qui ci sono i tavolini davanti ai bar e ci sono persone sedute a chiacchierare. Impensabile in India, non c’è tempo per queste attività dilettevoli nelle città, finite le otto ore di lavoro si può iniziare con il secondo lavoro. Un’altra differenza grossa è che nella repubblica islamica del Pakistan la frase “Sei musulmano?” è praticamente una domanda retorica. Qui non si incontrano un bramino, un buddista e un musulmano in tre giorni consecutivi.
Qui però almeno c’è spazio, anche i negozi sono molto più grandi, ogni locale pakistano potrebbe contenere tre negozi indiani.
Il mio vicino di posto mi rivolge qualche domanda, ma il resto della conversazione è in urdu. Colgo qualche parola in comune con l’hindi, ma ne so troppo poco per indovinare il senso dei discorsi. Ad ogni modo sia io che Ahmad abbiamo la testa che si ribalta all’indietro e rimontiamo in macchina per raggiungere il letto. Ci lasciamo alle spalle il piazzale con una distesa di dozzine di bottiglie di vetro, in piedi come come birilli.

3 commenti su “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…”

  1. Mamma mia l’avventura alla dogana!! Che storia!!! Ti offrono il pranzo e non riescono a darti il visto 🙃🤣😱 ci vogliono solo la tua pazienza e determinazione!!!

  2. Le zanzare ti pungono perché non canti loro la ninnananna come facevo io in lab. Se lo fai si addormentano… o forse quello era l’insetticida…

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