Mercoledì 24/02/2022 Parco Nazionale di Tbilisi (Georgia)
Il sole è appena sorto, infatti le cinciarelle sono venute a darmi il buongiorno, coke ieri. Il freddo della notte con 1°C è un’ottima scusa per restare in amaca a scrivere.
Curiosamente, ho scoperto ieri sera di essere distante solo cinquanta chilometri da una città che si chiama Verona, proprio come voi che siete a Reggio.
Quando inizia a fare più caldo, ore dopo, è ora di fare lo zaino per spostarsi.
A meno di non sedersi di nuovo in amaca per scavare la coppa. È un passatempo quasi infinito: il mio unico trapano è la punta del coltellino e il fondo della tazza è tondo. Adesso che sono solo da più di un giorno, riesco a sentire i pensieri, posso uscire dal presente e guardarmi alle spalle, trapanando trucioli minuscoli che mi faranno alleggerire lo zaino di un microgrammo. Guardo la strada percorsa in quattro mesi. Niente male, quante facce ho conosciuto tra qui e casa, quanti amici e quanta bellezza. Ma quanti familiari, quanti amici ho lasciato a casa, là lontanissimi? In piedi su questa sfera che gira, da qua si vede quasi il resto dell’Europa, ma non si torna a casa per la scorciatoia, la via è dall’ altra parte.
Ora, se la Terra fosse piatta non sarebbe un gran problema girarsi e guardare dall’altra parte, ma su una Terra sferica è tutto diverso. Guardare verso casa sporgendosi verso Est fa venire le vertigini, da qui si vede a malapena il Sudest asiatico, che è ancora nella prima metà di mondo, e di parecchio. Tra qui e là ci sono l’Iran e l’India, che sono enormi e hanno più luoghi da visitare di quanti ne possa immaginare, più strade di quante se ne possano percorrere in sei mesi o un anno. Mi illudo che siano più vuoti dell’ Europa, ma non è così. Non è neanche la distanza il problema, ma il tempo che manca prima di vedere gli amici e tutti gli affetti.
Basta, questa si chiama nostalgia ed è normale, ma dieci minuti di nostalgia sono sufficienti poi conviene pensare a qualcos’altro perché fuori da questa foresta c’è un altro mondo da scoprire e pieno di persone in procinto di diventare conociute e alleviare la nostalgia.
Il caldino della mattinata si sta facendo intenso su questa vetta, perciò rifaccio lo zaino per raggiungere il passo su cui sentivo i campanacci della mandria di ieri. Con lo zaino in spalla sgusciare tra gli alberi intricati è facile come avere due palchi sulla testa, ma zigzagando e lavorando di quadricipiti cento metri si superano in meno di dieci minuti. Imbocco un sentiero circondato da quercie e carpini che mi fa sentire improvvisamente a casa, un luogo indistinguibile dalle colline di Reggio. Seguendo il sentiero trovo le impronte delle vacche che sto seguendo, e anche un carapace di testuggine inforcato su un ramo. Prendo con me una scaglia come souvenir, lasciando lì tutta la parte ossea, che si vede al metal detector degli aeroporti. Una vecchia scaglia di testuggine costituisce comunque contrabbando di parti di animali protetti, ma con le prove fotografiche di dove l’ho trovata nessuno potrà mai protestare.
Sento in lontananza un tintinnio e ben presto arrivo in vista dei quindici capi della mandria, che vagano per il bosco. Li ho seguiti sperando che mi portassero verso una fonte d’acqua perché qualcosa dovranno pur bere. Come speravo, sono radunati in una piccola valle scavata da un ruscello. Un ruscello secco. Mentre supero la mandria, due dei quattro cani posti di guardia si avvicinano a qualche metro da me che sto seguendo il sentiero. Ci guardiamo, facciamo un bel respiro prima di entrare in scena e poi ognuno recita la propria parte come da copione. “Baubaubau” “Vengo in pace” “Ri-baubaubau” “Sì adesso me ne vado” “Baubaubau” “Ciao e a mai più rivederci”
Deve essere dura per loro fare la guardia con tutti i lupi che ci sono qui in giro, e anche la mia presenza costituisce una minaccia notevole. Il palo di nocciolo che ho in mano potrebbe fare dei danni notevoli se dovesse urtare uno di loro, perciò tutto quello che possono fare è latrare a squarciagola e sperare che me ne vada. È ancor più dura per loro perché che non hanno niente da mangiare. Qualche minuto dopo mi sorge un dubbio insolvibile. Va bene che questi cani digiunano da giorni, ma come fanno con l’acqua? Percorrono chilometri e chilometri andando a bere a turni? Bevono latte forse? Non lo so.
Io ho sete e oggi devo trovare un mooo per rabboccare le borracce o dovrò razionare ulteriormente l’acqua. Ne ho ancora un litro, ma preferirei mantere un po’ di riserva per le emergenze. Il piano è di superare le montagne e raggiungere il versante Nord, dove è segnato un corso d’acqua e una fonte perenne.
Taglio dritto su per il bosco assolato, cinquanta passi alla volta. Con una colazione scarsa la produzione di energia è lenta e il fiato è corto, ma sosta dopo sosta il dislivello si riduce in fretta. Incontro un gruppetto di cervi e nient’altro, solo iris, primule e ciclamini. Adesso ho sete, uso famosa tecnica da deserto di Mors, ma invece di bagnarmi appena la bocca berrei volentieri un litro d’acqua.
Sono quasi sulla cresta e avvisto una lamina di plastica bianca piantata di traverso nel terreno. È vero che la Georgia è disseminata di rifiuti, ma qua in cima proprio non me li aspettavo, come ci è arrivata? Qualche passo in più basta per trasformare il disgusto in un miraggio: è neve!
È neve vecchia, tutta sporca in superficie, basta trovare uno strato candido e pulito e scavare una miniera. Inizio a riempire la borraccia, in cui resta mezzo litro d’acqua che aiuterà a sciogliere il ghiaccio.
Il monte Vibis non è distante e ormai la parte difficile sta alle mie spalle. Vista tutta la fatica fatta, decido di raggiungerlo nonostante il sole stia già calando.
Quassù ci sono impronte miste di uomo e di lupo perché di fatto usiamo tutti gli stessi sentieri, i crinali sono comodi per spostarsi rapidamente. Raggiungo la vetta e scopro che ce n’è un’altra più alta e un’altra ancora qualche metro più su. La seconda è sufficiente, anche perché il sole sta davvero tramontando. Curiosamente, proprio accanto a questa cima trovo un cartello didattico del parco e una costruzione inusuale, un bagno. In queste settimane ho notato che in Georgia non va di moda farla all’aperto, ma trovare un gabinetto in cima a una montagna mi pare veramente ridicolo. Capisco che a qualcuno possa fare piacere, ma io non lo userei mai, tutto il resto del bosco mi pare decisamente più spazioso e pulito. Con la luce che cala di minuto in minuto scendo a casaccio nella neve a mezza gamba, dirigendomi verso il corso d’acqua segnato sulla mia carta. Va bene aver trovato un po’ di neve, ma per riempire le borracce in un tempo ragionevole mi serve dell’acqua liquida.
Quando ormai non ci si vede più niente, con le calze fradicie di neve, trovo un luogo adatto all’amaca a pochi metri dal primo rivolo di neve fusa.
Preparo il campo e mi rifugio al caldo mentre la temperatura del versante Nord scende sotto zero. È il caso di mangiare una tavoletta di cioccolato.
Qui il silenzio è quasi completo e regna la pace. Vivendo qui non ci si accorgerebbe della guerra laggiù in Ucraina neanche se si estendesse fino a Tbilisi. Non c’è neanche connessione internet, quindi arriverebbero prima le bombe delle notizie.
Bellissimo questo racconto della tua scalata in solitaria, senza nessun incontro umano!!! Come sempre sei bravissimo a scrivere e a descrivere, sembra di essere un po’ lì con te….la fatica però te la lascio tutta!!!!🤣🤣🤣
Palla non ti preoccupare, noi siamo qui ad aspettarti guardando verso Ovest, non ci sentiamo abbandonati. Appena ti vedremo spuntar fuori dall’orizzonte faremo festa!