Oh fame, dove sei?

Lezione di ieri: L’unico modo per chiedere una tregua ai georgiani è darsi alla macchia.
Martedì 23/02/2022 Parco Nazionale di Tbilisi (Georgia)
Mentre mi riscaldo come una lucertola ai raggi del sole, scrivo e inizio a intagliare una sorta di piccola coppa di legno, trovata per caso a Korbouli. Dopo che hanno finito di spaccare la legna, è rimasto un blocco di legno cresciuto sul moncherino di un ramo spezzato. Il ramo è marcito da tempo, perciò è rimasta una profonda concavità nel legno vivo che lo ha ricoperto, formando un cappuccio. La sua unicità non lascia scelta, bisogna lavorarlo e togliere tutta la parte che non assomiglia a una coppa. Mi metto all’opera per qualche ora, perché scavare l’interno con il coltellino svizzero non è semplice, sarebbe un lavoro da Felix Himmler. (Felix Himmler è un creatore di video su youtube che con in mano un coltellino svizzero potrebbe costruire qualsiasi cosa.)
Verso mezzogiorno è ora di spostarmi perché altrimenti resto qui fino a sera, tanto si sta bene. Non so ancora bene che via prendere, ma intanto vado in su. Fa già caldo qui presso Tbilisi e come notavo ieri il terreno è piuttosto secco. Meglio prendere un po’ d’acqua da un rivolo, anche se sono combattuto perché si trova nei pressi di un pascolo. D’altra parte, perché mi porto in spalla il filtro per l’acqua se non lo uso?
Rabboccati i miei due litri, inizio a rampare su un sentiero tra le ginestre, cercando di indovinare la via giusta per raggiungere la cima del monte Vibis.
Fa caldo oggi, salgo piano piano aggirando a spirale un’altura, mentre sotto di me appare nuovamente la città di Tbilisi, così lunga da perdersi nella foschia. Il sentiero che sto seguendo mi ricorda tantissimo le colline di casa mia, per via delle querce e dei carpini, sembra una strada sterrata di Casina o Carpineti. Arrivato in cima trovo delle quercie ottime per l’amaca, quindi decido di fermarmi in questo punto panoramico all’estremità di una stretta cresta. Salgo su un albero per osservare il paesaggio tutto intorno con la testa sopra la chioma intricata di rami spogli. Questo posto è ottimo anche perché gli ungulati difficilmente frequentano questa zona così in vista e sono abbastanza sicuro che noi umani appassionati di panorami siamo i principali frequentatori di vette come questa, così lontana dal corso d’acqua a fondo valle.
Cala il sole e riprendo a scrivere dentro il sacco a pelo, al riparo dal freddo e dal vento. Si leva un coro di ululati dalla valle a Est, poi un altro e un altro ancora. Questa notte ci dece essere una festa. Come previsto, gli ululati povengono tutti dal basso, nessuno ha voglia di venire quassù, è molto più comodo utilizzare il passo che si trova qui a un chilometro.
Rasserenato dalla scelta oculata del campo base, mi addormento sotto le stelle.
No, Sveglia! È il 23, ecco perché il telefono suona. È il giorno del mese in cui sono partito ed è l’occasione per una videochiamata a casa. Non è semplice organizzarla dopo il tramonto, ma una torcia puntata in faccia è l’ideale per risvegliarsi dal pisolino serale. Come è accaduto anche in Turchia, ci siamo sentiti anche due giorni fa e le novità sono piuttosto scarse, anche se oggi ho visto proprio tanti alberi, tutti simili tra loro. In realtà queste telefonate servono più a raccogliere le mie impressioni generali sul viaggio, ma non sono mai molto preparato sull’argomento. È difficile generalizzare così tanto. Posso solo cercare nuove parole per descrivere gli apici raggiunti dalla bontà di chi mi incontra, o meglio, mi trova.
Queste telefonate servono anche a fare il punto ogni mese della mia velocità di spostamento. Non va misurata in chilometri ovviamente, perché andare a Nord e a Sud non mi fa progredire verso Est. Nei miei rosei piani contavo di attraversare i Balcani in un mese, la Turchia in un mese e in capo a tre mesi contavo di arrivare a Baku. Ieri mi è arrivato il visto per l’Azerbaijan, ma tra Tbilisi e Baku ce n’è di strada. D’altra parte la strada tortuosa dei Balcani è servita per farsi un po’ le ossa e ho passato Natale a Istanbul e dieci giorni di malattia tra Iğdir e Kars. È inutile, sono comunque in ritardo di un mese. Il papà mi tira su osservando che ad ogni telefonata c’è un’ora di fuso in più. Non sarebbe male se non fosse che l’Iran è indietro di mezz’ora rispetto a qui.
Comunque qui si è fatto tardino e ci salutiamo. L’Azerbaijan è piccolo e si può attraversare in tre settimane.

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