Lo stomaco va in sciopero

Lezione di ieri: da un certo punto in poi, non serve più neanche l’autostop.
Lunedì 22/02/2022 8:50 Korbouli (Georgia)
Oggi potrebbe essere la volta buona che parto, ma ormai non ci credo troppo.
Nikolozi però sembra convinto e io nek dubbio saluto di nuovo tutti, prima che vadano a scuola. Korbouli sembra un villaggio insignificante, ma nella scuola ci sono cinquecento studenti.
Contrariamente alle aspettative, alle 11 si parte, non con la macchina comprata ieri, ma con un pullmino bordeaux pieno di signore. Sale anche Nikolozi, poi però scende e prende la macchina. Noi intanto partiamo, ma dopo un paio di minuti torniamo indietro perché manca qualcuno o qualcosa. Secondo me non ci andiamo davvero a Mtskheta.
11:20
Ce l’abbiamo fatta, ci allontaniamo da casa a tutta velocità, stavolta è definitivo. Non ci sono solo le comari di Korbouli a bordo, ma qualcuno mi fa notare che c’è anche Salomè, che mi crede già partito da giorni. Si può facilmente immaginare la mia contentezza per avere qualcuno con cui chiacchierare nelle prossime ore. Mi faccio spiegare di nuovo come mai è venuta a Korbouli e mi racconta più estensivamente il motivo di questo suo progetto. Il problema più grosso della Georgia è la carenza di opportunità lavorative, perciò quasi ogni famiglia georgiana spinge i figli a lasciare il paese, oppure emigra tutta insieme. È per questo che si dice che i georgiani sono 12 milioni, ma solo 4 vivono in Georgia. Anche nella famiglia di Nikolozi è così, specialmente per le ragazze.
Questo problema porta con sé un altro dramma, perché la gente è meno disposta a battersi per una terra che ama, ma che in fondo intende abbandonare. È quello che è successo in una valle da queste parti, dove il governo sta cercando di costruire un invaso artificiale. La valle non è solo un mucchio di alberi e prato, ma in essa si coltivano sette varietà autoctone di vite. Tuttavia se la biodiversità vinicola non viene valorizzata come avviene in Italia o in Francia, nessuno ne riconosce l’importanza, tantomeno gli oligarchi al governo. Per questo Salomè e suo padre Giorgi hanno elaborato un documento per sottolineare il valore di questa terra e hanno elaborato una controproposta meno invasiva, costituita da un’infinità di piccoli impianti idroelettrici sparsi in tutta la valle. Ovviamente realizzare una diga sola è più semplice e muove di più l’economia, perciò il progetto è stato fermato solo temporaneamente. Quello che mi affascina di questa protesta è che include anche una controproposta costruttiva realizzata con serietà. Salomè mi racconta anche delle difficoltà seguite all’indipendenza dall’URSS, dove era lo stato ad incaricarsi di risolvere i problemi e fornire i mezzi necessari. Venendo meno questo sistema statale, è stato difficile per la gente adattarsi al nuovo modello capitalistico e autogestirsi. È lo stesso discorso che faceva Maria, quella che mi ha accompagnato a Psacha in Macedonia.
Mi spiega che oggi andiamo a Mtskheta per festeggiare San Gabrieli da Samtavria, l’ultimo beato istituito in Georgia, molto famoso proprio perché è vissuto nel secolo scorso. È morto nel 1995 ed è stato beatificato appena dieci anni fa.
Salomè accenna qualcosa al proprio ritorno alla fede e decido di approfondire. È nata da una famiglia ortodossa, ma crescendo ha smesso di credere e di frequentare la chiesa. È stato solo anni dopo che ha avuto un periodo di crisi, come Tolstoj, e ha ritrovato uno scopo di vita grazie alla fede ortodossa. La parte più divertente, è vedere se stessa adesso con la mentalità che aveva allora, e viceversa.
Mentre parliamo la bambina seduta davanti a me si fa coraggio e si presenta, perché parla già un po’ di inglese. Si chiama Mariami e ha sette anni.
Arriviamo alla chiesa principale di Mtskheta, che è dedicata a Gabrieli TSminda e Nino TSminda, perché TSminda significa “santo”. La chiesa è già gremita, entriamo nel fiume di fedeli cercando un po’ di spazio. Passando noto un piccolo banco pieno di strisce di carta, circondato di fedeli intenti a scribacchiare qualcosa. Tutte le strisce finiscono in un’urna, come se fossero biglietti della lotteria. Salomè mi spiega che sono semplicemente preghiere, che verranno lette in seguito durante la funzione. Nelle chiese ortodosse non ci sono banchi per sedersi, perciò troviamo posto e dopo poco arriva suo padre Giorgi. Mentre inizia la funzione mi offrono una candelina gialla, da tenere in mano durante la preghiera. Come accade solitamente, la preghiera è cantata ad alta velocità dai soli celebranti, con ampio uso di incenso, che si spande nell’aria, a volute.
La candela piano piano di consuma, mentre la folla si volta a detra per ricevere la benedizione con acqua e poi di nuovo a sinistra verso le spoglie di Gabrieli TSminda. Ho deciso di tenere la candela finché si sarà consumata del tutto, saldandosi alle mie dita con le gocce di cera che colano lungo il gambo.
La messa è insolitamente breve e al termine ciascuno si reca presso la teca di vetro in cui riposa San Gabrieli per toccarla e farsi il segno della croce tre volte. Poi usciamo e faccio un giro al negozio di souvenir, per compiere il mio dovere. Trovo là anche Nikolozi, che sta comprando per me un piccolo ciondolo con l’effigie di Nino TSminda. Aspetto che esca e compro di nascosto un’immagine della chiesa, spendendo così il mio primo lari!
Nel frattempo nel piazzale stanno distribuendo lobiani, una sorta di khaCHaPuri ripieno di fagioli, e il suo fratellino ripieno di patate. Uno a testa, ma uno per tipo perché siamo in Georgia e il cibo non deve mancare. Nikolozi mi chiama per mostrarmi una piccola cappella e un’aiuola in cui cresce incolto un cespuglio di rosa, sin dai tempi in cui Nino fu sepolta qui. Pensavo che Nino fosse un uomo, invece si tratta di una ragazza, colei che portò il cristianesimo in Georgia. Era originaria della Cappadocia e da laggiù partì a piedi, arrivando fino qui a predicare il cristianesino, convertendo la regina Nana e il re Mirian, che organizzarono un battesimo di stato, così che in un giorno solo tutta la Georgia fu battezzata. Nino portava con sé una croce ricavata da un tralcio di vite, perciò i bracci di quella croce erano rivolti verso il basso, non orizzontali. Finalmente ho capito perché qualsiasi croce qui ha quella forma strana da simbolo di pace e amore.
A seguire ci spostiamo alla cattedrale si SveTitskhoveli, circondata da un giardino e una cinta di mura. L’interno non è così gremito come nella chiesa precedente, nonostante si stia svolgendo un matrimonio. Passo accanto alle reliquie e alle tombe per andare a vedere da vicino gli sposi, vestiti in abiti tradizionali. La sposa è vestita di bianco, con velo, strascico e tutto, mentre il vestito dello sposo è piuttosto inusuale. Tradizionalmente lo sposo e i testimoni si presentano vestiti da cavalieri, con un giubbotto nero con due file di fiale argentate per la polvere da sparo, disposte a V sul petto. In cintura hanno due pugnali e sopra la calzamaglia indossano una gonna corta. Sono appena usciti da quel video che mi ha mostrato Temuri per mostrarmi i balli tradizionali. Il celebrante davanti a loro ha una mitra blu luccicante di brillanti e una sontuosa veste. Naturalmente la cerimonia è lunga, perciò dopo che Nikolozi mi ha mostrato un paio di curiosità riguardo a questa cattedrale, loro sono ancora lì.
All’interno di questa chiesa c’è un’altra chiesa più piccola, in una navata laterale. Inoltre gli interventi di ricostruzione avvenuti nei secoli hanno creato delle pareti a due strati in tutto l’edificio.
Inoltre nella chiesa è sepolta la sorella di Elias, un georgiano di Mtskheta che comprò la sindone di Cristo a Gerusalemme e la portò qui in Georgia. Quando la sorella Sidonia toccò la sindone, tale fu l’emozione che morì e non fu possibile toglierle la sindone dalle mani. Per questo furono sepolti insieme e sulla sua tomba crebbe un cedro. Secoli dopo, quando Nino fece tagliare il cedro per ricavarne i pilastri della nuova chiesa, uno di questi pilastri si sollevò in aria e dal ceppo iniziò a sgorgare acqua miracolosa. Questa scena è presente in moltissime chiese georgiane e finalmente ho capito da quale storia ha origine.
Facciamo qualche foto ricordo e saliamo in un’altra chiesa, il monastero di Jvari, situato in cima al monte davanti a Mtskheta. Questa volta salgo in macchina con Giorgi e Salomè, che parlano entrambi inglese. Giorgi è vestito da un po’ che non si esercita, quindi ogni tanto confonde le parole. Quando facciamo una sosta a comprare del pane, lui dal sedile anteriore estrae una pipa intarsiata e mi dice: “I like, no, I LOVE wood.” Sto già rispondendo che anche a me piace lavorare il legno, ma lui si corregge: “I love weed.” Riempie la pipa e si fa una bella pipata di marijuana. Nel frattempo mi racconta che la pipa è stata intagliata da un suo caro amico, che non c’è più.
Con una scorta adeguata di pane ripartiamo verso il monastero, ma due chilometri prima facciamo una sosta per non morire di fame, in una zona picnic in mezzo alla pineta. I vani portabagagli sopra i sedili del pullmino sono una cornucopia di cibo, sufficienti a coprire un tavolo composto da due pallet, 2,5 metri quadrati di nutrimento da dividere in 25 persone. Occupo una mano con un bicchiere di vino, così posso reggere il cibo solo con l’altra, così posso rallentare le offerte di assaggiare un pezzo di ogni cosa.
Mi ricordo che questa sera resterò da solo e quindi non va più bene neanche il vino, posso solo mangiare. Nel frattempo sono iniziati i brindisi, che come avviene in Italia vengono dedicati a qualcuno o qualcosa. Per primo, un brindisi a “Dideba Upalo”, al “Grande Signore”. Questo è tipico di queste parti, in Italia non ho mai sentito qualcuno brindare a Dio. Poi ciascuno fa un breve discorso e lo suggella con un brindisi. Dopo alquanti brindisi, andiamo a vedere questo benedetto monastero.
Il monastero di Jvari si trova sulla cima di una collina, affacciato sulla confluenza dei fiumi Mtkvari e Aragvi, un magnifico incrocio di valli. Salomè mi spiega che recentemente qualcuno ha pensato di dividere l’altezza della collina per l’altezza dell’edificio, trovando come quoziente proprio la sezione aurea. Quindi anche voi, prima di costruire la vostra casa in montagna, imparate a misurare l’altezza della montagna. L’interno è piuttosto semplice, anche perché il monastero è molto antico, con al centro un basamento esagonale e una grande croce.
All’uscita rimontiamo tutti a bordo e mi faccio trasportare di nuovo alla zona picnic, perché ho in programma di passare qualche giorno nel parco nazionale di Tbilisi. Come si può immaginare sono tutti increduli per la mia richiesta bizzarra, ma la mia sicurezza basta a rasserenarli. Saluto tutti e poi anche Nikolozi, che mi lascia il proprio numero e vuole darmi anche dei soldi. “Non li voglio, ho ancora cinquanta lari da quando sono arrivato e non so come fare a spenderli.” Non vuole sentire ragioni, io ricorro anche al traduttore per esprimere un pensiero più complesso, ma va a finire che mi infila una banconota in tasca. Lascio perdere il resto, ci abbracciamo e ci salutiamo con un arrivederci, perché se non voglio essere iscritto nella lista degli idioti è meglio che torni a Korbouli il prima possibile.
Rimasto solo con il parco nazionale, raccolgo lo zaino da terra, ma mi sento chiamare dalla pineta. Sono i grigliatori che stavano preparando il fuoco durante il nostro pranzo. Per dare un’idea delle proporzioni della grigliata, loro sono in dodici, di cui tre ragazzi, e hanno tre taniche, due d’acqua e una di vino. Ciascuna tanica deve essere circa 25 litri, per non rischiare di rimanere a secco.
“Da dove vieni?” “Italia!” (In molti paesi non dicono Italy, ma Italia.) “Vieni a sederti con noi!” Ecco, lo sapevo. Adesso che cosa faccio, me ne vado e basta? Che figura ci fa l’Italia? Mi tocca andare a salutare, ancora una volta meravigliato da questo amore georgiano per i viandanti, vieppiù accresciuto dalla fratellanza italo-georgiana, di cui purtroppo solo loro erano a conoscenza, finora. “Cosa vuoi da bere? Ghvino?” È pressoché impossibile tenere testa alla caparbietà georgiana, ma quello seduto accanto a me parla spagnolo e posso ribadire in un’altra lingua il concetto che non bevo quando sono sulla strada, niente alcol. Capiscono la mia richiesta di semplice acqua, ma secondo loro Coca cola e Panta sono migliori e quindi la scelta è solo tra queste due. Servirebbe un’altra battaglia per conquistare l’accesso all’acqua, ma non ne ho voglia.

– Qui ho un problema, non mi ricordo più tutti i nomi che ho segnato sul telefono che si è rotto. In attesa di ripararlo inventerò un nome temporaneo affiancato da un punto di domanda. In realtà anche i nomi che scrivo di solito sono in gran parte sbagliati, perché è difficile afferrare i nuovi suoni nella prima settimana.-
Mentre chiacchiero in spagnolo con Julio(?) mi ordinano di mangiare qualcosa, io accetto solo un pezzo e quindi me ne danno due, più un po’ di contorno e un’offerta di lobiani, nel caso avessi fame. Lascio perdere il maiale arrosto e continuo a parlare. Julio(?) è georgiano, ma ha vissuto e lavorato dieci anni a Madrid, in una agenzia immobiliare. Ogni tanto torna in Georgia, dove ha famiglia. Qui insieme a lui infatti c’è suo fratello. Inizio a mangiare un po’ di carne mentre i tre ragazzi di fronte a me accendono la musica, cominciando da Celentano. Le canzoni successive sono pop georgiano invece e il settantacinquenne dall’altra parte del tavolo si mette a ballare da seduto, muovendo a ritmo le braccia e la testa con la scioltezza che è propria dei fumi dell’alcol.
Viene pronta altra carne, quindi mi scaricano un mezzo spiedo nel piatto. Buonissimo eh, ma non ho più fame, se per caso prima ero affamato. Arriva un altro spiedo. “Non mi va, grazie.” “Assaggialo, questo è diverso” “No grazie” “Ecco qua, buon appetito.” Non ci riescono, sono fatti così.
Ormai il sole sta calando, ho circa un’ora di tempo e li saluto, facendo una foto ricordo.
Mi incammino lungo una strada sterrata che porta ad un altro monastero, telefonando a Davo per raccontargli l’assurdità della Georgia, dove la gente è talmente generosa che ogni tanto bisogna fuggire e prendersi qualche giorno di pausa.
La vegetazione qui nell’Est è cambiata radicalmente, a causa del clima molto più secco. Al posto dei faggi,delle quercie e dei cedri del caucaso qui ci sono pini, ginestre e rose. Viene buio sul serio ed esco di strada per appendere l’amaca, proclamando il digiuno fino a venerdì. Ho ancora con me metà di quel khaCHaPuri che preparò Lali l’8 febbraio, che non ho avuto il coraggio di mangiare per timore del cibo in arrivo. Ho anche tre tavolette di cioccolato comprate da Nikolozi, ma non penso di mangiarle davvero. Voglio avere fame, ho bisogno di ricordarmi com’è, basta cibo! Perso in queste riflessioni mi rendo conto di avere trovato la soluzione alla fame nel mondo, se la propongo alle nazioni unite mi danno il Nobel per la pace. La soluzione sono i georgiani! Dodici milioni di georgiani sono un numero abbastanza grande da poterli spargere su tutte le terre emerse, in maniera uniforme, a cucinare per tutti. Loro ne sarebbero ben contenti, sono sicuro, e tutta l’umanità ne trarrebbe un enorme vantaggio.
Mentre monto il campo faccio i conti dei soldi spesi, un lari in tre settimane di Georgia. Significa 1,5 centesimi di euro al giorno, niente male. Apro il diario di viaggio di Émeline e Viktor, i miei amici francesi che stanno facendo il giro del mondo davanti a me. Loro in Georgia in dodici giorni hanno speso 25 euro al giorno, ma si spostano molto più velocemente di me.
Solo ora mi ricordo della banconota di Nikolozi, controllo che cos’ho in tasca e trovo altri 50 lari. Non ci posso credere.
Rifacendo i conti, qui in Georgia sono in attivo di 70 centesimi al giorno. Ma vi rendete conto?!?
Dopo questa entro nel sacco a pelo a scrivere, ora finalmente non perderò preziosi momenti di compagnia. Un’ora dopo, da fuori l’imbottitura sento provenire un coro di ululati. Scopro la testa di scatto per capire da dove provengono e valutare la distanza. Sono lontani, nella valle accanto. A causa di qualcosa che ho mangiato e delle bibite, ho già marcato il territorio tutto intorno, perciò si capisce che dentro l’amaca c’è un uomo e non è il caso di avvicinarsi. D’altra parte il clima qui è già mite e i lupi non patiscono certo il freddo e la fame, hanno portate migliori di me nel menù. Le portate migliori sono quelle che non rischiano di avere con sé un fucile.

3 commenti su “Lo stomaco va in sciopero”

  1. Fantastico! Personalmente i viaggi nei boschi sono la mia parte preferita e mi fa sempre piacere vedere che i lupachiotti ti stanno sempre accanto.

  2. Francesca Parisi

    Grande Palla, è bello seguire i tuoi aggiornamenti, devi assolutamente pubblicare tutto al tuo ritorno!
    Aspetto con ansia la parte sull’india!

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