Lezione di ieri: quando l’ospitalità aumenta, la partenza va pianificata con molto anticipo.
Domenica 14/02/2022 7:44 Ureki (Georgia)
Il sole è appena sorto, mondo come sia possibile, ma spesso mi sveglio esattamente all’alba, anche se dentro il sacco a pelo è buio pesto. Vado a sgranchirmi un po’ e poi smonto il mio impianto, cercando di non dimenticare le conchiglie che ho raccolto ieri. Le avevo gettare via, ma poi ho mandato la foto a casa e le collezioniste malacologiche mi hanno chiesto di riportarne a casa un paio. Questi gasteropodi in realtà provengono dal Pacifico, ma sono stati introdotti nel mar Nero più di settant’anni fa. È probabile che siano stati trasportati insieme all’acqua di zavorra delle navi mercantili, così come è accaduto a decine e decine di altre specie introdotte accidentalmente nel Mediterraneo. Naturalmentee pompe delle navi non aspirano le conchiglie direttamente dai fondali della costa cinese. Prima di sviluppare la conchiglia i molluschi hanno uno stadio larvale e fluttuano nell’acqua, in modo da disperdersi meglio e colonizzare nuovi ambienti. Se trovano il teletrasporto verso un mare lontanissimo è possibile che sopravvivano e vi si stabiliscano permanentemente. È così che il Mediterraneo è popolato di numerosissime specie aliene, provenienti da ogni parte del mondo. Alcune di queste specie ora stanno svolgendo la stessa funzione ecologica del siluro o del gambero rosso della Louisiana nei fiumi italiani: proliferare senza controllo e competere con le specie autoctone fino a farle estinguere. Il problema non riguarda solo i molluschi, ma anche le alghe, le meduse, i pesci, gli ctenofori e le stelle di mare. Non se ne parla quasi mai perché è difficile accorgersi di quello che avviene nel mare, ma tra specie aliene e acidificazione dell’acqua è in corso una rivoluzione, là sotto. Chi conosce la biodiversità del Mediterraneo questa rivoluzione la chiama catastrofe. Tornando alle conchiglie, sono colorate e carine, probabilmente più robuste della media dei prodotti cinesi.
Per far finta di essere utile, raccolgo un sacco di pigne, così grosso che si rompe lungo la via del ritorno e torno a casa in maniche corte e sudato nonostante il freddo della mattina.
10:40
Non parto mai presto e oggi non fa eccezione. Ho ancora una domanda da fare. Perché Lali ieri l’altro mi ha chiesto se so andare a cavallo e sparare con il fucile? “Perché quando tornerai, IN ESTATE, potremmo andare a caccia da queste parti.” Non tornerò per un bel po’, ma anche Temuri starà via a lungo. Ora che me ne vado finirà di ristrutturare la loro casa a Lanchkhuti, per poi andare a lavorare per un anno in Norvegia, dove i salari sono molto migliori che qui. Nel frattempo Lali si prenderà cura di un nipote, che adesso ha un anno.
Prima di andarmene devo fare parecchi ringraziamenti, che si possono riassumere in una constatazione fondamentale. Ho imparato parecchio georgiano grazie a loro, ma in otto giorni non ho ancora avuto bisogno di imparare a chiedere scusa. Sono sempre stati qui, al mio servizio.
È pronto il pranzo, vado in cucina e trovo un piattone di spaghetti ad aspettarmi. Devo proprio andare perché dopo il khaCHaPuri ieri e gli spaghetti oggi abbiamo raggiunto l’apice dei piatti speciali. Raccolgo tutto, prendo il sacchetto del cibo da viaggio e dopo un grande abbraccio si parte verso la parte inesplorata della Georgia. Devo anche dire addio al Mediterraneo, chissà quando ci rivedremo.
In macchina con Temuri do un’ultima occhiata al contachilometri, che segnava quasi 392000 km quando ci siamo incontrati a Sarpi. Ora sono aumentati a 393700, fate un po’ voi i conti.
Arriviamo a Grigoleti e scrivo il primo cartello in Georgiano sotto la supervisione di Temuri.
15:20
Il primo a fermarsi è un certo Georgi (che si pronuncia Gheorghi perché siamo in Georgia, che a sua volta per i georgiani si dice Gheorghia o Sakartuelo), che ha ventotto anni ed è diretto a Samtredia e poi proseguirà verso Zugdidi. Guida un piccolo furgone, che al momento è vuoto. Non sono ancora molto ferrato con il lessico da autostoppista, quindi non parliamo granché, anche perché lui è molto impegnato ed è sempre al telefono.
Schivando il campo minato dell’asfalto arriviamo a Samtredia, ma all’estremità sbagliata. Questo paese è sviluppato in lunghezza lungo la strada maestra, quindi aspetta una bella camminata nel forte vento di oggi. Proseguo sempre dritto tra un piccolo fosso e l’onnipresente tubo del gas, a volte giallo a volte rosso. È stupefacente che l’acqua del fosso di scolo a bordo strada sia limpida, talmente pulita che dentro ci sono i pesci.
In fondo al paese, è il momento di scrivere un nuovo cartello. Non dovrebbe essere difficile trovare un passaggio per Kutaisi, ma non si ferma nessuno. È anche difficile trovare l’autista nelle auto, perché una su tre ha la guida a destra. Forse è perché le macchine inglesi di seconda mano costano un po’ meno, o magari i georgiani che vanno a lavorare nel Regno Unito tornano a casa in macchina. Non sarebbe neanche strano.
Comunque sia, non tutti gli automobilisti sono diffidenti e quello successivo è Ika, con un fuoristrada, che è diretto proprio a Kutaisi. Non ricordo più tanto che cosa ci siamo detti, so bene che quando mi ha lasciato nella periferia della città, per prima cosa ho visto una vacca con il vitello, in passeggiata lungo le strade trafficate. Ogni tanto sembra di essere in India e non ho ancora capito come facciano i proprietari a ritrovare il bestiame, visto che è libero di scorrazzare ovunque.
A Kutaisi c’è ancora più vento, qualche bel murales sugli edifici e un piccolo centro storico. Mi dirigo là per guardarlo con calma e con l’intento di campeggiare sulla collina a Nordest del ponte Bianco. Anche qui si capisce che siamo ancora in Europa, lo stile è completamente diverso da quello che mi sono lasciato alle spalle in Turchia.
16:30
Non ho ancora trovato un cartone per strada e ora capisco anche il motivo. Pensavo che fosse usato come combustibile nelle stufe, invece viene riutilizzato dalle signore georgiane per confezionare vasi da fiori rivestiti di carta da regalo. Per aggirare la lobby delle fioriste devo andare direttamente alla fonte, che è il negozio di alimentari accanto. Provo a chiedere del cartone in georgiano, ma è una parola impronunciabile e la commessa non capisce, ma mi risponde in inglese. Ottimo, ecco il mio biglietto per Gori.
Invece di dormire qui c’è una simpatica collina poco più avanti, vale la pena di camminare un altro po’ e uscire da Kutaisi già oggi. Dubito che basti a farmi tornare la fame, non voglio mangiare un bel niente oggi e i profumi buonissimi dei ristoranti sono disgustosi. Nel frattempo sono in una stradina in salita tra le case residenziali della città, a due piani e piuttosto semplici. Sopra la strada c’è sempre il tubo del gas e i cavi dell’elettricità, inoltre da sopra ai tetti sbucano parecchie cisterne di plastica blu o di acciaio arrugginito, appoggiate su un traliccio. Sono l’equivalente dei pensili comunali che abbiamo noi in Italia, ma su scala familiare.
Sono arrivato in vista della collina, mancano solo due chilometri, quando una macchina si ferma accanto a me, chiedendo da dove vengo e dove vado. È Giorgi (Ghiorghi), un altro Giorgi, perché San Giorgio non è per niente famoso qui e metà dei georgiani maschi porta il suo nome.
Ha circa quarant’anni e parla un po’ di inglese, ma quando scopre che sono italiano mi chiede se parlo spagnolo. “Io sì, lo parlo, ma tu come fai a sapere lo spagnolo?” È una storia lunga, Giorgi ha lasciato la Georgia molti anni fa, per andare in Spagna, dove ha lavorato per anni a Madrid e poi è rimasto per dieci anni nelle Azzorre. Suo figlio ora vive negli Stati Uniti ed è un cestista professionista. Ora che è morto suo padre è ritornato qui in Georgia, ma dice che le Azzorre sono davvero meravigliose come si sente dire.
Nel frattempo la mia collina se ne è andata perché gli ho detto che stavo andando due chilometri più indietro invece che più avanti. Mi ha portato in un posto decisamente meno attraente e ormai è buio, quindi bisogna che scenda e mi accampi. Mi lascia il proprio numero, in caso di bisogno lui abita a Zeda Simoneti, qui vicino.
Intorno a me ci sono solo campi, niente alberi per stare fuori dalla vista. Da Maps sembra che ci sia un pezzetto di bosco su una stradina laterale, meglio lanciarsi di là per avvistarlo prima che faccia completamente buio.
Il posto è approvato, ora resta solo da raggiungerlo attraversando un ruscello.
La luna piena è già sorta e rende superfluo l’uso della torcia, perciò mi avventuro indisturbato sulla collina boscosa, cercando un posto adatto tra le querce. Non è semplice perché il bestiame al pascolo ha scavato dei solchi fangosi e il sottobosco è pieno di pungitopi e salsapariglia spinosa. Appoggio lo zaino a un tronco, guardo bene l’albero per riuscire a ritrovarlo e vado in ricognizione. Trovo uno spiazzo, trovo un bastone, monto la tenda e via dentro al caldo, voilà. Fuori c’è ancora parecchio vento e montare l’amaca sarebbe strato tedioso, perché gli alberi sono radi e il telo blu fa rumore e rischia di rompersi. Anche gli alberi rischiano di rompersi, perciò è sempre bene controllare di non accamparsi nei pressi di un albero morto, che con il vento potrebbe diventare un acchiappamosche.
Non devo preoccuparmi della cena perché non c’è motivo di cenare e vado semplicemente a letto, senza ululati.