Iğdır, l’oasi dei campeggiatori

Lezione di ieri: L’acqua dei laghi può scendere sotto lo zero.
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Questa faccenda del blog in arretrato mi rende nervoso.
Mercoledì 19/01/2022 8:40 Van (Turchia)
Fine del soggiorno a Van, oggi si scende a Iğdır e magari se sono fortunato trovo addirittura qualcuno che va a Kars. Se invece non arrivo neanche a Iğdır ci vuole il piano C, il piano casa.
Mi resta addirittura un pochino di tempo per scrivere prima di uscire, ma giusto un attimo perché è meglio incamminarsi subito alle 11, perché uscire da Van non si fa in mezz’ora.
14:28
La strada è a tre corsie, ma un camion parcheggiato in strada mi fa un grande favore e le riduce a due, così decido che basta così e mi posso già fermare. Con mia grande sorpresa, una ragazza di passaggio accosta per farmi salire. Sta andando all’università a pochi chilometri da qui, ma l’importante è allontanarmi il più possibile dal centro di Van. Lei si chiama Meryem, studia medicina ed è disponibile a darmi una mano, mi chiede cento volte se ho qualche problema che può risolvere. Sta già risolvendo il mio problema più grosso, uscire da Van, e bisogna che mi sbrighi a raggiungere almeno Doğubeyazit prima di sera (Ci vogliono due giorni per farselo entrare in testa, si pronuncia Doubeiaz-t). Per inciso, Meryem è un altro ottimo motivo per cui dovreste venire a cercare l’anima gemella da queste parti, se in Italia non sta funzionando.
Qui è molto più semplice trovare un passaggio e si ferma Cengiz (Genghis) che sta andando fino in cima al lago. Lavora come pompiere a Ergiş e anche lui è curdo, come la quasi totalità delle persone incontrate da Malatya a qui. Faccio qualche commento sulle temperature polari che c’erano tre settimane fa e Cengiz mi racconta dell’inverno di dieci anni fa, quando in centro a Van c’è stato -36°C e a Çaldıran (cial-d-ran) c’era -45°C. Sotto questa prospettiva questi quindici gradi sotto zero mi sembrano decisamente tiepidi, non so neanche di che cosa stiamo parlando.
Per il resto del viaggio mi fa ascoltare qualche brano di musica della resistenza curda, “Oremar” e i Grup Yorum. Ci salutiamo al bivio per Doğubeyazıt, dove un grande cartello stradale blu propone una scorciatoia evidenziata in giallo con la scritta Iran. Potrei girare a destra e tagliare fuori dal viaggio Georgia e Azerbaijan, tanto tra un mese o più sarò di nuovo qui, qualche centinaio di chilometri più a Est presso il lago Urmia. Scherzavo, non mi perderei per niente al mondo il Gürgistan e l’Azeristan, rotta 070 verso Çaldıran! Calma, prima ci vuole un cartello con scritto Çaldıran e poi ci vuole una macchina.
15:30
Le macchine non si fermano e non capisco chi svolta e chi no, facciamo che mi sposto oltre lo svincolo in modo da avere le idee più chiare e le macchine più lente. Mi incammino nella neve, ma dopo cinquanta metri si ferma un furgone bianco che va a Çaldıran. No, non è un furgone, è un pullmino privato. Saluto ringrazio e mi siedo in fondo, siamo in otto in tutto.
Nessuno dice una parola e saliamo fino alla destinazione, dove nevica e naturalmente fa più freddo che sul lago. Mentre scendo uno dei passeggeri mi richiama invitandomi a pagare la corsa all’autista. Non avevo capito che fosse un mezzo di linea, ecco perché sono tutti così taciturni. L’autista taglia corto e dice che siamo a posto così, in effetti se ti fermi accanto a uno che fa l’autostop dicendo “sali su” io non mi aspetto che questo sia un autobus. Ad ogni modo, ora posso spuntare anche la casella “autostop su autobus in servizio”. Il bus di Gebze non conta perché di fatto ero un portoghese, avrei dovuto pagare il biglietto ma l’autista ha chiuso un occhio.
È giunto il momento di scrivere Doğubeyazıt e Iğdır prima di proseguire, quindi mi rifugio in un’officina perché se il pennarello indelebile incontra una goccia d’acqua smette di scrivere.
Armato di segnaletica esco di nuovo e in dieci minuti sono a bordo della macchina di Muz, che incredibilmente parla inglese. “Come mai conosci l’inglese?” Lo chiedo sempre perché è un fatto eccezionale da queste parti. La risposta è stupefacente infatti Muz è insegnante di inglese, è probabile che lo conosca. È abbastanza giovane e non va lontano, ma ha pensato di portarmi fuori alla fine del paese perché qui c’è troppo traffico e nessuno si fermerebbe.
Mi lascia poco più avanti davanti alla scuola superiore dove insegna, che si trova poco fuori da Çaldıran ed è immersa nel bianco. Un attimo dopo suona una campanella e vengo attorniato dagli studenti e studentesse dei primi anni, con i “çok güzel” che cadono più fitti della neve. Ribadisco, se vi sentite in difficoltà venite qua a cercare moglie.
Da dove vieni, come ti chiami, dove vai eccetera eccetera. D’accordo ragazzi, ma io stavo cercando di fare l’autostop in un posto dove passa una macchina ogni cinque minuti, che è poco. Se mi state intorno non si ferma nessuno, non vi porto in gita. Alcuni se ne vanno, ma ne arrivano altri, anche un professore curioso. Almeno il prof ha un minimo di buonsenso e conosce il turco abbastanza bene da spiegare ai ragazzi che devono levarsi dai piedi, ma senza risultare offensivo. Tre quarti dei mezzi che passano di qui sono pullmini che vengono a prendere gli studenti, le macchine sono molto rare. Fatih mi aveva avvisato che questo tratto era piuttosto difficile.
Tuttavia quando le condizioni meteo peggiorano l’autostop è più facile e gli Adem si fermano. Sulla neve la frenata è lenta, perciò mi lancio a correre gambe in spalla prima che l’autista ci ripensi. Adem sta andando proprio a Doğubeyazıt, perché il suo lavoro è trasportare pacchi da laggiù a Çaldıran. “La strada è molto brutta, è un problema per te?” “Assolutamente no, grazie mille.” Come ci arrivo a Iğdır altrimenti, volando?
Partiamo lungo la strada dritta e bianca, nell’aria piena di neve e foschia bianca che presto inghiottono la scuola e tutto il resto, mentre la strada inizia a salire. La strada è molto ampia, probabilmente ha quattro corsie, ma salendo iniziano le curve, il vento e i camion fermi che non riescono più a proseguire. Tra Çaldıran e Doğubeyazıt c’è un passo a 2644 metri di quota, dove la macchina segna -11°C e i mezzi spazzaneve possono fare molto poco contro la nevicata incessante. Il vento che spazza la montagna solleva la neve polverosa come se fosse sabbia e forma dei lunghi pennacchi che strisciano sulla strada ondeggiando come serpenti bianchi. Sembra di essere persi nella Siberia ma siamo letteralmente a un chilometro dal centro abitato di Soğuksu (Souksu), cioè acqua-fredda. Al contrario, qui nel Doblò siamo al caldo, ma abbiamo praticamente il riscaldamento al massimo.
15:55
Siamo in cima al passo, ma il traffico è bloccato. Deve essersi piantato un camion di troppo e ora siamo in coda dietro ad un mezzo spargisale che sembra un pupazzo di neve. Adem è quasi in riserva e a stare fermo gi si spegne la macchina, ma non è affatto preoccupato, questa è routine. “La vita è molto difficile qui, perché fa molto freddo durante l’inverno. D’estate invece le strade diventano calde e polverose.” Non lo dice per lamentarsi, per me che vengo dal paradiso terrestre è chiara la differenza rispetto a qui. Nella pianura padana con -10°C d’inverno e +40 d’estate la terra è fertile e il clima è piovoso, non prosciugato dal vento. D’accordo, forse loro qui non hanno le zanzare, ma è perché manca l’acqua.
16:45
Finalmente qualcosa si sblocca e possiamo ripartire superando i camion ancora fermi e un enorme mezzo spalaneve che sta lottando da un quarto d’ora per uscire dalla montagna di neve a bordo strada. Mentre raggiungiamo la fine della fila, un camionista getta fuori dal finestrino un pezzo di pane, per sfamare un cane randagio che elemosina un po’ di cibo qui a 2600 metri, nel vento gelido di gennaio. Ha persino la coda ripiegata sotto la pancia per tenerla più calda, o almeno così mi sembra.
Mentre scendiamo il termometro inizia a risalire fino ad un caldissimo meno sette.
Siamo in centro a Doğubeyazıt, qui le nostre strade si dividono.
17:55
Adesso vado a Iğdır, se riesco a trovare un passaggio in questi ultimi venti minuti di luce. Appena arrivato alla strada che scende nella conca della salvezza, sotto la quota limite della campeggiabilità, si avvicina una ragazza con una valigia. Ha l’aria di una studentessa turca appena arrivata da chissà dove per ritornare al proprio appartamento da fuori sede. Per un attimo ho sperato che mi volesse addirittura ospitare a casa propria, invece sta dicendo in inglese che sarebbe meglio fare l’autostop prima dell’incrocio. Non mi convince per niente e mentre cerco di capire a chi sta telefonando per farsi aiutare, continuo a fare l’autostop, anche se ormai è sera.
Non ho più molte speranze, ma una macchina invece si ferma, ringrazio la ragazza e salgo con l’autista, che ha trentatré anni e i capelli tagliati corti. Si chiama Emrah, abita a Iğdır ed è registrato su Couchsurfing. Tombola!
Da qui si vede il famoso monte Ağrı Dağ (Aare daa) meglio noto come Ararat, 5137 metri di altezza. Chiedo informazioni sulle escursioni qui intorno, perché sembra un bel posto. Dimentico che qui è come in Bosnia, non ci si può allontanare dalle strade. Il motivo non sono le mine, ma l’esercito del Grande Fratello, che sorveglia le zone rurali in cerca di Emmanuel Goldstein e i suoi rivoluzionari del PKK. (Per chi non ha letto “1984”, Emmanuel Goldstein è un personaggio del libro, non della politica turca)
Magari il buon Erdoğan è solo un povero dittatore innocente e la Turchia non è ancora ai livelli di 1984, ma quando mi si nega il diritto al vagabondaggio mi inalbero. Come se non bastasse, qui a pochi chilometri c’è il confine con l’Armenia. Se attraversi quella linea invisibile ti sparano perché sei un contrabbandiere di armi, anche se stai portando le frittelle alla nonna. In generale è pericoloso allontanarsi dalle strade in tutto il Kurdistan turco, cioè quella parte di Turchia in cui le strade sono presidiate dai posti di blocco dell’esercito. Grossomodo tutta la zona a Sudest di Gaziantep-Malatya-Erzurum-Kars.
Giusto a proposito di contrabbandieri di armi, Emrah mi racconta che ci sono più di cento sindaci curdi in prigione, rei di essere in qualche modo in rapporti con il PKK. È vero che dal 1920 il partito dei lavoratori curdi ha sostenuto una guerra di indipendenza, è vero che hanno fatto attentati e non sono qui a dire che hanno fatto bene perché i Turchi sono più cattivi di loro.
Sto dicendo che da vent’anni a questa parte il PKK ha cambiato rotta, come mi diceva anche Sam a Istanbul, e quello che viene richiesto è una certa autonomia territoriale e culturale, non l’indipendenza tout court. Ci sono ancora gruppi nazionalisti curdi che compiono attentati, ma sono fuoriusciti dal PKK. Ciononostante, se diventi sindaco troviamo un motivo qualsiasi per metterti dietro le sbarre e al tuo posto ci mettiamo un sindaco turco, così il problema è risolto. A volte invece che andare in prigione muori e basta, come i trenta civili curdi che nel 2011 sono stati bombardati dall’esercito perché contrabbandavano benzina e sigarette dall’Iraq. Capita di sbagliarsi, ogni tanto succede anche in Italia di bombardare qua e là dove sembra che ci siano dei gruppi di corrieri della droga.
È strano perché visto dall’Italia ci sembra normale che nel Medio Oriente vengano brutalizzati i civili. Non sarebbe giusto, ma sarebbe normale, succedeva anche da noi quando c’era la guerra. Il fatto è che qui non c’è nessuna guerra, al massimo la si può chiamare repressione. C’era più aria di guerra in Bosnia, per fare un paragone e cercare di dare un’idea.
Siamo arrivati a Iğdır, dove ci aspettano tre amici di Emrah per andare a mangiare una pietanza particolare a base di carne. Al Choco Lab incontro Luri, Azat e Servet, gli ultimi due dei quali parlano anche inglese.
La pietanza di stasera si chiama saç kavurma e significa qualcosa come carne arrostita su una piastra di metallo. Non solo io, ma neanche Servet l’ha mai assaggiata. In un piccolo locale luminoso, tiepido e umido c’è una piastra d’acciaio larga un metro e leggermente concava, riscaldata da un grande fuoco a gas. Il cuoco rosola sulla piastra peperoni verdi e cipolla e poi aggiunge alcuni grossi pezzi di carne bovina. Con un coltello lungo e sottile inizia a tagliare la carne direttamente durante la cottura, mentre di tanto in tanto mescola lo spezzatino. Mano a mano che la carne cuoce la sposta sul bordo, dove rimane in caldo ed è pronta da mangiare, senza posate. Come senza posate? Certo, senza posate, tu che leggi preferiresti mangiare spezzatino e pane o spezzatino e forchette?
Accanto al bancone c’è un’enorme provvista di pane, che serve per prendere la carne senza scottarsi. Ovviamente le capacità prensili del pane sono limitate, quindi in cinque facciamo una strage di filoni. Da bere? Beh, per i deboli di cuore c’è la bevanda di Babbo Natale, ma ho già capito che i veri curdi bevono şalgam, quindi ne prendo un bicchierone senza pensarci due volte. È viola come il mosto d’uva, ma è salato. Pizzica come una bevanda fermentata, ma non è alcolico. Che diavolo è? È succo di carota viola, a cui viene aggiunto il sale per favorire la fermentazione lattica invece di quella alcolica. Non capisco se mi sta dissetando perché c’è il doppio del sale che c’è nell’ayran, ma il prossimo tè risolverà tutto.
Paga Azat per tutti quanti e andiamo fino a casa in macchina per portare su lo zaino. L’appartamento è molto più grande di quanto mi aspettassi e ho una stanza per me. “Via via, lascia tutto che torniamo fuori se ti va.” Agli ordini, sono pronto.
Andiamo in un altro locale, Hunter Burger, dove lavora Osam. Hanno già chiuso ma un bicchiere di tè non si rifiuta a nessuno.
Dopo un’oretta ritorniamo a casa, dove Emrah accende il computer e guardiamo un documentario che parla delle brillanti condizioni economiche del Centrafrica, dove anche il cibo costa così tanto rispetto a quanto si guadagna che l’agricoltura di sussistenza è l’unico modo per sopravvivere. Sarà divertente andare da quelle parti.
È già luna passata, probabilmente è un buon orario per andare a letto.

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