Un labirinto sotterraneo

Lezione di ieri: il vento non è così terribile, basta rampare un po’ e scaldarsi.
Lunedì 10/01/2022 9:15 Nevşehir (Turchia)
Ho dormito decisamente bene, questa notte non ha fatto così freddo come mi aspettavo, e fuori c’è già luce. Mmh, attaccati alla tenda ci sono due pezzi di ghiaccio, deduco che stanotte è piovuto e la temperatura è scesa sotto zero. C’è qualcosa che non quadra, di solito mi viene freddo ai piedi se la temperatura scende così tanto. Deve essere stato il calore che mi ha mandato la Gualtier ieri sera, non trovo altra spiegazione.
Questo ghiaccio fuori dalla tenda proprio non me l’aspettavo, forse i piccoli accorgimenti messi a punto in questi mesi contano qualcosa. Presto le nuvole si diradano e scoprono il sole, che inizia a scaldare l’aria del mattino, ancora congelata. Il sole si copre di nuovo e qualche chilometro più in là sembra che stia piovendo, a Nordovest oltre Nevşehir. Mentre la pioggia passa proprio sopra la città il sole si scopre e disegna un ponte arcobaleno sopra le case. L’arco è molto basso perché il sole ormai è alto nel cielo, me la sto prendendo con calma. Improvvisamente inizia a piovere anche qui. Guardo in alto e sopra la mia testa il cielo è blu, consparso solo di nuvolette innocenti e brandelli di vapore. Da dov’è che sta piovendo? Non si sa, però piove lo stesso.
12:28
Non appena sono sicuro che lo scherzo sia finito, finisco in fretta di rifare lo zaino. È il momento di capire che cosa sono questi piccoli frutti arancioni e dolci su cui ho dormito stanotte. Il cespuglio è una Rosacea, sembra un biancospino e queste sembrano bacche di biancospino, solo che sono più grosse del normale e di un colore diverso. Non è difficile capire che cos’è, perché queste bacche sono molto usate in Turchia, si mangiano crude. È un biancospino, ma di una specie che in Italia non c’è, chiamata Crataegus orientalis. Dal nome si capisce perché non cresce in Italia. Ne raccolgo un bel po’, così stasera in ostello ci faccio una specie di confettura.
12:55
Ne ho abbastanza, è ora di ritornare verso la strada di ieri oppure, ancora meglio, posso tagliare attraverso il pendio direttamente verso il castello, si trovano sempre cose interessanti passeggiando fuori sentiero. Resistendo alla tentazione di raccogliere ancora più biancospino, dopo cinquanta metri sono già fermo perché appare un nespolo selvatico. Non un nespolo giapponese, quello che fa i frutti arancioni. Questa pianta non c’entra niente ed è la specie autoctona europea, per distinguerlo lo si chiama nespolo comune (Mespilus germanica). Il proverbio “Col tempo e con la paglia maturano le nespole” si riferisce a quest’ultima pianta, che fa i frutti in inverno. Nessuno ha mai messo le nespole giapponesi nella paglia, sono le nespole europee che vanno conservate all’asciutto nell’attesa che maturino. Sono delle palline marroncine molto più piccole delle nespole giapponesi, che quando sono acerbe sono lisce e dure. Il processo di maturazione è molto strano perché sembra che marciscano, si forma un bollo marrone scuro che pian piano si espande su tutta la buccia, che diventa scura e quasi nera. Quando il frutto è acerbo, la polpa è dura, color giallo chiaro e molto allappante, praticamente immangiabile. Nel corso della maturazione anche la polpa diventa marrone scura, della consistenza di un dentifricio, mentre i carboidrati complessi si trasformano in saccarosio dolce e il risultato assomiglia a una marmellata di mele cotogne. Il bello di questa marmellata è che cresce sugli alberi. Sono poco popolari come frutti ed è tantissimo tempo che non ne mangio, ne prendo un mezzo chilo perché non è facile trovarli. Proprio adesso mentre scrivo sto mangiando nespole.
Quando ormai ho raggiunto la strada, ecco dei mandorli, quindi mi fermo di nuovo a raccogliere una manciata di mandorle. Sono piccole e sembrano vuote, ma in realtà sono tutte piene e molto buone. Finiti i rallentamenti, scendo direttamente verso la strada che porta al castello. No, ci sono delle altre mandorle. Nel frattempo vengono verso di me due poliziotti che mi chiedono da dove vengo. Mi credono sulla parola quando rispondo “Italia” e non hanno niente in contrario rispetto al raccogliere la frutta secca.
Di fronte al tunnel di ieri sera, il vento ha divelto la transenna di lamiera, nonostante fosse avvitata all’albero. Il castello si trova poco più su e nella biglietteria non c’è nessuno. Il castello panoramico è piccolo ma ben restaurato ed è costruito in cima alla collina di arenaria nella quale sono state scavate le abitazioni ipogee. Oltre il castello c’è una passerella di legno che passa tra le case scavate nella roccia ed entra in alcune di queste, adibite a museo etnografico. Ci sono ambienti dedicati alla vinificazione, chiese, magazzini, cantine e alcune stanze per la produzione dell’olio di lino, che richiede alcune vasche comunicanti per decantare il prodotto. Questa città sotterranea è sviluppata in altezza per 85 metri ed è un labirinto di camere e corridoi in grado di ospitare ventimila anime. È stata abitata fino a un secolo fa, quando la comunità greca che abitava qui è stata cacciata definitivamente dalla Turchia.
Alcuni corridoi sono veramente stretti e non sono pensati per i viaggiatori con lo zaino. L’ultimo passaggio che mi resta da esplorare è abbastanza alto e lungo diversi metri, ma è largo un paio di centimetri in più dello zaino. Mentre cerco di attraversarlo per la seconda volta spero che non si restringa ulteriormente, altrimenti ripercorrerlo tutto in retromarcia diventerebbe un’odissea. È un tunnel fatto bene, ci passo, ma scopro di essere tornato dov’ero mezz’ora prima, semplicemente non ho notato questa uscita strettissima. Piuttosto che ripercorrere questo corridoio risalgo di stanza in stanza. Le porte sono tutte basse, quindi risalire di nuovo le stanze in salita diventa un ottimo esercizio per i quadricipiti.
Molto bella la città, adesso direi che posso uscire dal cancello aperto che ho visto ieri, tanto non importa a nessuno dove passano i turisti e gli stessi abitanti locali entrano in queste case facendo falò e gettando rifiuti. Non sarò certo io a rovinare il sito archeologico se prendo una strada alternativa.
In un baleno sono in centro a comprare un kebab e un chilo di frutta secca mista. Ci vuole un rinforzino in previsione del trasferimento a Göreme. La prossima tappa si trova a soli 13 chilometri e sfruttare l’autostop su una distanza così breve mi sembra proprio da sfaticati, meglio farsi una bella camminata riscaldante.
18:17
Fa già buio, anche perché ieri in un giorno solo ho perso almeno dieci minuti di luce, muovendomi di più di 300km in direzione opposta al sole. Mentre esco dalla città, un cane inizia a seguirmi. Quando mi giro a guardarlo fa finta di niente, sembra quasi che mi voglia seguire e basta, o magari vuole un pezzo di pane. Gli lancio qualche boccone di pane, ma mangia con scarso interesse. Continua a seguirmi, sto già pensando a un nome per smetterla di chiamarlo Hombre, ma sul più bello devia a sinistra dentro il cortile di un market, che dalla parte opposta è recintato. Ci salutiamo così, poi lui gira sui tacchi e torna indietro. Peccato, mi stava già simpatico.
Tra l’altro anch’io ho sbagliato strada, facendo abbaiare un po’ di cani attraverso un campo e torno sulla retta via. Con calma arrivo a Uçhisar, un paese con al centro un massiccio di roccia alto cento metri e con le pareti quasi verticali. Le pareti e le piccole alture circostanti sono interamente traforate di case. Parecchie porte di ingresso si trovano a metà della parete a strapiombo, in certi punti si vede qualche stanza affacciata sul vuoto, con le pareti decorate a motivi geometrici. Guardando meglio, si tratta in realtà di mezze stanze. La roccia friabile tende a sfaldarsi e periodicamente crolla una fetta di monte. Domani devo tornare in questo posto, è incredibile.
20:40
Ormai Göreme è vicina, manca circa un’ora di cammino e c’è tempo per qualche altra telefonata. Non ho troppa fretta di arrivare, tanto questa volta ho prenotato un posto in ostello, così non c’è bisogno di contrattare il prezzo all’arrivo. Arrivando a Göreme intravedo già i camini delle fate, quelle formazioni rocciose colonnari che caratterizzano la zona. È notte, ma si capisce già che questo posto è incredibile.
All’ostello incontro solo Uzcan, che ha la mia età e gestisce gli arrivi. C’è un piccolo problema, non segnalato online, i dormitori sono solo femminili, io non posso dormire qui. Uzcan però ci sa fare, mi offre un tè e mi indirizza all’ostello gestito da suo cugino. Online costerebbe un euro in più, ma dato il malinteso mi può fare lo stesso prezzo. Ci si potrà fidare di suo cuggino? Spero di sì, anche se la mia seconda scelta sarebbe stata un altro ostello.
Mi trasferisco nel nuovo alloggio, che si chiama “Köse pansion”, ed entrando chiedo ai presenti chi è il cugino di Ozcan. Nessuno sa di che cosa sto parlando, benissimo. Per fortuna sono d’accordo sul prezzo, quindi posso accomodarmi nel dormitorio. Il primo dormitorio è già pieno, quindi di fatto ho una stanza tutta per me al prezzo di cinque euro. Dicono che il riscaldamento non si potrebbe accendere perché c’è una norma turca che lo proibisce e bla bla bla. Probabilmente lo tengono al minimo perché siamo in bassissima stagione e devono ridurre al minimo tutte le spese, è comprensibile. Non è un grosso problema, ci sono coperte in abbondanza. Il grosso problema è che negli ostelli della Turchia agli ospiti è vietato cucinare, a causa della pandemia. Si può dormire tutti insieme, mangiare tutti insieme, giocare tutti insieme, ma non si può stare in cucina da soli a cuocere un uovo. Io ho una quantità di cibo da cucinare e devo trovare un metodo alternativo. Mentre ci penso vado in camera a scrivere. Ho anche fame e inizio a divorare la frutta secca già sgusciata, buonissima. Dopo i primi quattro etti forse è il caso di dormire, altrimenti finisce tutta subito.

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