Lezione di ieri: Alla prima nevicata è bene dormire all’aperto, per non perdersela appena cade.
Sabato 18/12/2021 7:26 Perperikon (Bulgaria)
Bianco, per terra c’è solo bianco, non sarà facile osservare le rovine di Perperikon, ma almeno sarà divertente. Non c’è così caldo e mi sembra proprio il momento giusto per visitare la città. Non sembra esserci nessuno in giro e per una volta potrei evitare di portarmi dietro lo zaino, basterà dare un’occhiata alla tenda ogni tanto, giusto per sicurezza. Leggero come una piuma, salgo la scalinata principale che porta alla zona più alta del sito archeologico, dove si è conservato il perimetro dei muri fino a mezzo metro da terra. Per accedere agevolmente alle parti più importanti del sito è stata realizzata una passerella con alcuni cartelli che indicano la destinazione d’uso delle strutture presenti sotto la neve. Le uniche parti visibili sono una torre e qualche cisterna dell’acqua in cui la neve si è già sciolta. In certi brevi tratti la passerella è inclinata in discesa per renderla accessibile anche ai disabili, ma il risultato è che io pattino giù senza freni. In generale non mi piace molto lo stile utilizzato qui in Macedonia e Bulgaria per restaurare i siti archeologici e gli edifici storici, perché c’è una forte tendenza a ricostruirli e rimetterli a nuovo, cosicché non si capisce più quanta parte sia originale e quanto invece sia una riproduzione. Qui invece è piuttosto chiaro, perché le parti rifatte sono ben diverse dalle pietre originali, smussate dalle intemperie. Anche una torre è stata parzialmente ricostruita per aiutare ad immaginare come dovesse apparire un tempo, ma senza ricostruire le mura per intero come al castello di Ohrid. Probabilmente c’è un motivo, ma rispetto al modello “Ohrid” preferisco lo stile utilizzato a Kokino, pochissimi interventi e molto testo corredato da immagini di come appariva il luogo un tempo. È anche molto più economico.
Proprio accanto alla cima è stata scavata nella roccia una grande stanza, che per la forma e per l’ubicazione ha tutta l’aria di essere un tempio o un palazzo. Si vedono ancora nelle pareti le cavità quadrate che immagino servissero a sostenere le travi del piano superiore. Capisco che quando si hanno a disposizione gli schiavi si può realizzare qualsiasi cosa, ma non sarebbe stato più semplice costruire le mura invece di scavare nella roccia? Decisamente no, se costruisci un muro di pietra va a finire che dopo diecimila anni non ne rimane più niente, è inammissibile.
È stupenda questa neve fresca, non bagna neanche le scarpe. Faccio un’ultima foto ai dintorni arrampicandomi su una roccia, nella quale è stata ricavata una stretta scala. Essendo in uso da ottomila anni, i gradini sono solo abbozzati e scivolosi a causa della neve. È uno di quei momenti in cui mi ricordo della collana che porto, perciò pulisco con cura ciascun gradino in modo da salire senza rischiare di scivolare giù.
Il tempo vola e le nuvole iniziano a dissiparsi, lasciando intravedere il cielo. Il blu è uno sfondo meraviglioso per le linee nere dei rami spogli che qualcuno ha cercato di nascondere con una riga di bianchetto. Le nuvole si spostano velocemente e poco dopo il blu arriva anche il giallo del sole, quando io ho appena cominciato a raccogliere le mie cose. In pochi minuti la temperatura aumenta repentinamente e inizia una bombardamento di palle di neve sul mio telo, che stava cercando di asciugarsi. Il telo è andato, ora bisogna cercare di ripiegare amaca e sacco a pelo senza che si bagnino. Sarebbe bello infilare tutto nello zaino e partire subito, ma dopo tre giorni che non lo riordino è difficile farci entrare tutto. È ora di tirare fuori l’equipaggiamento e incastrare bene ogni cosa, per fortuna non ho ancora sganciato l’amaca, così la posso usare per appoggiare tutto all’asciutto. Quando ripiego anche il telo la neve sugli alberi ormai si è sciolta quasi tutta e cade a grosse gocce. Scappo lungo il percorso lastricato che porta al parcheggio, cercando di non scivolare sul ruscello d’acqua che scorre nel sentiero. Al parcheggio ci sono ben tre auto, ma nessuno degli autisti sembra sul punto di ripartire e darmi un passaggio, quindi mi incammino a piedi verso Čiflìk, il paese dove ho incontrato Mehmet ieri pomeriggio. Il cielo è scuro perché sono arrivate delle nuvole da Nordovest e davanti a me, molto vicino, si vede chiaramente che sta piovendo in abbondanza. Qui cade sono qualche pallino di neve, ma niente di serio. Dopo un’ora di cammino trovo un passaggio, che mi può portare oltre Čiflik fino al bivio per Perperek. Si chiama Egin e mi spiega che questa regione al confine con la Tracia turca è popolata da moltissimi turchi ed è possibile che un giorno o l’altro si separi dalla Bulgaria formando uno stato indipendente.
13:25
Ora che sono sulla strada principale le mie possibilità di raggiungere Madžàrovo entro sera sono molto maggiori di prima. Madžàrovo è un piccolo paese, molto vicino al confine con la Grecia, in cui si trova la sede di una ONG (Organizzazione Non-Governativa) che si occupa della conservazione delle specie di avvoltoio in Bulgaria. La ONG si chiama PSPB e ha il proprio centro di accoglienza proprio a Madžarovo. Stamattina ho telefonato per annunciare il mio arrivo, quindi mi aspettano là entro oggi pomeriggio.
Qui al bivio c’è uno spesso strato di praline di ghiaccio, scaricate da quelle nuvole che ho visto passare prima davanti a me. Lo strato è spesso e le macchine sollevano spruzzi ovunque quando passano. Si ferma una madre con la figlia a bordo, stanno andando dalla parte opposta ma possono fare servizio taxi in cambio di qualche leva. Non sono così disperato, le ringrazio e aspetto che si fermi qualcun’altro. Non sembra facile, anche perché le macchine sono proprio poche qui, il ché però rende gli automobilisti più disponibili a darmi un passaggio. Per passare il tempo e per aumentare le mie possibilità inizio a camminare verso Perperek. Poco prima di arrivarci si ferma Erdal, che sta andando proprio a verso Madžarovo. Come ha predetto Egin, Erdal è turco, perciò parla turco e bulgaro. Ne approfitto immediatamente e mi faccio insegnare un paio di parole in turco, “ciao” e “grazie”. È molto utile mettersi avanti con lo studio. Visto che sto andando a vedere i leshoyadi, cioè gli avvoltoi, mi insegna anche una parola bonus, kartàle, al singolare kartal. Andrà a finire che mi ricorderò solo kartal, così come la prima parola slovena che mi torna in mente è podlasica, che vuol dire donnola (si pronuncia podlasiza). È una deformazione professionale, mi sembra comprensibile.
Giustamente lungo la strada Erdal si ferma a prendere due caffè, uno ciascuno, poi mi porta fino a venti chilometri dalla mia meta. Prima di lasciarci apre Google traduttore e mi avverte che ci sono parecchi rifugiati siriani in questa zona. Detta così sembra una minaccia incombente, ma ci tiene a precisare che non è così. Non sta dicendo che c’è pieno di tagliagole che se mi vedono mi ammazzano, basta semplicemente agire con buon senso ed essere consapevoli della situazione. È come attraversare la strada, gli automobilisti non sono pazzi assassini che cercano di investirti, ma se non guardi dove vai è probabile che qualcuno ti metta sotto. Lo ringrazio e scendo, ora sono abbastanza vicino da riuscire ad arrivare entro sera anche a piedi. Proseguo, mentre aspetto che passi qualcuno, e un cagnolino di pochi mesi decide di venire con me, seguendomi con le sue zampone sproporzionatamente grandi.
Il primo mezzo che passa è quello giusto, ci sono a bordo cinque persone che vanno proprio a metà strada tra qui e Madžarovo. Li saluto e lì ringrazio in turco, ma mi guardano straniti, perché loro sono bulgari. Quando gli dico che vengo dall’Italia la confusione aumenta, ma per fortuna riesco a spiegare l’equivoco a Stephan, seduto accanto a me in ultima fila. Ha diciassette anni e parla un po’ di inglese, che integrato con un po’ di bulgaro permette di comunicare molto meglio di quanto sperassi all’inizio. Siamo partiti da poco e, per la prima volta in questo viaggio, faccio lo slalom tra le vacche in mezzo alla strada. L’Europa è già finita, lo dicono anche i tre carri trainati dai cavalli che salutiamo passando. Lo dice anche il maglione sgualcito di Elias, l’autista, un vestito di lana che senz’altro ha visto giorni migliori.
Presto le mie affermazioni diventano credibili perché le mie conoscenze di bulgaro e turco si sono quasi esaurite in poche frasi.
In un quarto d’ora siamo a Dolni Glavanak e il mio arrivo diventa puntuale, non solo possibile. Anche a piedi arriverò prima del tramonto, ma confido che passi qualcuno nelle prossime due ore. Non sono proprio nel bel mezzo del nulla e infatti poco dopo passa George (si pronuncia con le g dure), che va proprio a Madžarovo e mi dà un passaggio verso il centro di ricerca. George è veterinario e lavora in questa zona, dove immagino che il lavoro non manchi visto il numero di vacche incontrate finora. Quando arriviamo al centro non c’è nessuno dentro e George mi aiuta a parlare con quella che lo gestisce, la donna che ho contattato stamattina. Parla inglese, ma non così tanto da riuscire a coordinarci per telefono. Arriverà tra pochi minuti, ringrazio molto George e vado ad appoggiare lo zaino.
15:35
In breve arriva una piccola macchina con a bordo Annusha, accompagnata dallaadre Gradska. Annusha è di mezza età, non saprei dire quanto anni ha, ha i capelli biondi raccolti a coda ed è entusiasta di vedermi, specialmente quando le spiego che cosa mi ha portato fin qui. Non avrei mai pensato che esistesse questo posto se non avessi visto poco prima di partire un documentario che parlava proprio degli avvoltoi europei nei monti Rodopi. Nell’ultimo mese prima della partenza ho guardato diversi documentari ma erano tutti ambientati in Antartide o in altri posti in cui non andrò, a parte questo.
Le chiedo di illustrarmi quello che c’è da sapere sugli avvoltoi, quindi mi presenta la stanza in cui siamo e accende una videolezione di un suo collega che parla fluentemente inglese e si occupa dei progetti di conservazione, non lavora qui al centro. Mi è subito chiaro che devo incontrare quest’uomo, anche a costo di tornare indietro. Non vive qui in paese, ma ad Haskovo, 60 chilometri a Nordovest di qui.
La stanza del centro è interamente dipinta con un paesaggio primaverile e ospita parecchie piante ornamentali in cerca di una temperatura più mite di quella esterna. All’interno c’è una parete con delle nicchie che esemplificano l’arredamento minimalista dei nidi degli avvoltoi, che depongono le uova in cavità delle rocce, formando un piccolo nido di rami e piume e vi depongono uno o due uova quasi sferiche, un po’ appuntite da un lato. Alla base della finta parete di roccia ci sono le riproduzioni a grandezza naturale di tre coppie di avvoltoi, una per ogni specie presente qui. Al centro della stanza c’è un plastico che illustra le aree protette presenti nella valle, mentre sotto la finestra ci sono un paio di vetrine di souvenir.
La visita al centro è finita e oggi è tutto quello che si può fare, perché ormai sta venendo buio. Domani resterò qui per andare a osservare gli avvoltoi dal vivo, che è il motivo principale della mia visita.
Ho già anticipato ad Annusha che non mi servono le camere del centro, dormirò all’aperto con la tenda, quindi lei mi spiega che posso dormire proprio qui dietro il centro, al riparo di un tetto rotondo di legno. Iniziamo ad accordarci sull’indomani, ma ad un tratto mi dice che “Sai, ho un appartamento che non uso a Madžarovo, se stanotte preferisci dormire là non c’è problema. Di notte qui fa freddo.” È vero che siamo colleghi, ma ci conosciamo da mezz’ora. Mi sembra superfluo specificare la mia risposta.
Saliamo tutti e tre sulla Ford Kà guidata da Gradska e un pochi minuti arriviamo in paese, passando accanto ad un enorme murales con un Capovaccaio che accudisce un uovo, in cui si vede in trasparenza che è contenuto un cucciolo d’uomo. Faccio un po’ di spesa, considerando che domani sarà domenica, e poi Annusha mi accompagna all’appartamento, prepra un paio di coperte pesanti, accende l’acqua calda, il riscaldamento e la televisione. Lì c’è il bagno, qui ci sono i fornelli, questa è la chiave e ciao, ci vediamo domattina alle dieci. Sono un pochino sconvolto.
Mi aspettavo di dormire in tenda con meno sei invece sono in un appartamento con quattro letti, bagno, cucina e chiavi in mano. Faccio una doccia, lavo un paio di vestiti e stendo il telo blu ad asciugare, appendendolo tra due sedie. Per ultimo metto in carica tutte le batterie. Un momento, dov’è il cavo micro USB? Non c’è, ho vagliato tre volte il contenuto dello zaino e il cavetto proprio non c’è. L’ho visto stamattina mentre facevo lo zaino, ma è molto corto e deve essere scivolato fuori. Si trova a Perperikon tra le foglie cadute. Serve solo per caricare la power bank e la torcia frontale, quindi al momento non mi serve e non mi servirà fino a Istanbul, dove sicuramente ne vendono a migliaia.
Terminate le prime azioni essenziali, ceno e faccio alcune telefonate, che durano un’eternità e riempiono tutta la serata, fino a tardi.