La prima nevicata, a Prishtina

Lezione di ieri: Nella vita non bisogna correre, siamo fatti per camminare.
&
Con il vento a 100km/h non si vola via, ma ciò che non è legato è perduto.

Lunedì 29/11/21 5:56 – Pejë (Kosovo)

Stamattina c’è parecchio da fare, innanzitutto devo ricomporre lo zaino, che è disfatto da quattro giorni.
Scrivo l’articolo di oggi perché ieri non ho avuto tempo di finirlo e poi ci siamo, posso andare. No, non ancora, Martin sta dormendo. Non so se sia così anche di solito, ma in questi giorni in cui ci sono io ha sempre dormito sul divano.
Si sveglia un istante e si riaddormenta, ma dopo qualche altra finta si desta del tutto e mi prepara l’ultimo caffè prima della partenza.

9:25

Lo saluto e lo ringrazio per tutta l’ospitalità di questi giorni, poi mi incammino verso la capitale, o meglio verso il birrificio alla periferia della città, a quasi un’ora di cammino. Sono fortunato perché oggi è prevista parecchia pioggia, ma il cielo per ora regge e scende solo qualche goccia.
Sulla strada principale consumo l’ultimo pezzo di cartone proveniente dal televisore di Cetinje, scrivendo il nome della capitale e un paio di destinazioni intermedie. Il mio lavoro suscita una certa perplessità nel negoziante accanto, perché dal suo punto di osservazione sembra che stia scarabocchiando sulle sue casse di birra. Terminata l’opera, mi apposto all’uscita di una rotonda aspettando un passaggio.

10:18

Il mio eccesso di zelo viene ripagato e il cartone diventa subito inutile, perché dopo cinque minuti un tizio di circa trent’anni mi chiama dal distributore di benzina e mi offre un passaggio diretto per Prishtina.
Non subito, prima va a procurarsi un paio di piccole birre. Sta andando a Prishtina per lavoro ed è già in ritardo, ma non è molto preoccupato della cosa. È amichevole e ha l’aria di uno che sa il fatto suo. Mi offre una sigaretta ma no, io non fumo, poi mi chiede anche se faccio uso di droghe. Immagino che stia parlando di marijuana, qui fumano tutti, ha senso incontrare prima o poi qualcuno che fuma uno spinello. No, tira fuori il cellulare e la carta d’identità, che usa per sbriciolare un pizzico di cocaina sullo schermo. Non è la prima volta che vedo questa scena e l’altra volta che mi è capitato, in Costa Rica, dopo l’uso il mio amico non ha fatto una piega. Ha anche senso, Shrzed mi racconta che è reduce da un fine settimana decisamente impegnativo e intanto accenna al sesso sfrenato degli ultimi due giorni. Immagino che non possa tagliare i ponti con la coca così, da un giorno all’altro, una dose così non la sente neanche. La ordina in due righe e ripulisce lo schermo con una banconota da cinquanta euro. Con il filtro della sigaretta fa la scarpetta sul bianco che avanza e partiamo. Non è cattivo, anzi fa di tutto per non farmi sentire a disagio. Se vedo che inizia a guidare peggio scendo, tra l’altro non ha ancora toccato la sua birra.
Mi chiede che musica ascoltare e gli dico che può mettere su quello che preferisce. “Diciamo che tra musica house e hip-hop è meglio la seconda, ma sono aperto a tutto.” Alza il volume come se dovessimo gareggiare nella Formula Uno di Prishtina, ma continua a guidare ai 60 a debita distanza dall’auto davanti a noi. Se si potessero curare i pirati della strada con un po’ di coca, avremmo già risolto il problema degli incidenti. Purtroppo qui la coca probabilmente non c’entra niente, ha meno effetto della sigaretta che Shrzed sta fumando. Non sono per niente sicuro di come si scriva il suo nome, ma suonava più o meno così.
Dopo un po’ abbassa la musica e facciamo un’altra sosta per un rinforzino di coca. Mi chiede se può usare il mio telefono per non interrompere la riproduzione dei brani, ma io non mi offendo di certo se rimaniamo senza per un paio di minuti.
Ripartiamo e gli faccio qualche domanda sul 1998, perché lui c’era quando è scoppiata la guerra. Aveva nove anni e si ricorda perfettamente di suo padre che gli urla di stendersi a terra mentre i serbi sparano contro la sua casa e le pallottole passano fischiando mezzo metro sopra di lui. Dopo quel primo attacco la sua famiglia è fuggita in Albania, per poi ritornare a Pejë due anni dopo, nella città distrutta dalle esplosioni e dal fuoco. Lui a Pejë è uno di quelli che è meglio non fare arrabbiare. In qualche modo si è fatto un nome e mi lascerà il suo numero, nel caso dovessi avere bisogno di aiuto.
Il viaggio prosegue tranquillamente, parlando delle celebrità originarie del Kosovo come ad esempio Dua Lipa, un rapper famoso e così via. Per me che vivo ancora nell’Ottocento sono nomi già sentiti oppure del tutto sconosciuti. Almeno so già che Madre Teresa era albanese.
Shrzed si accorge che ho finito la birra e si ferma a prenderne un’altra, così ne approfitta per chiamare un suo amico chitarrista e chiedergli il titolo di una canzone che ha in testa. È Seven Nation Army, uno di quei ritmi familiari a tutti ma di cui pochi conoscono il nome. Già che ci siamo si fa anche un tiretto di coca e ripartiamo.
Arriviamo a Prishtina venti minuti troppo tardi. Riçard è appena partito per l’aeroporto e dobbiamo accontentarci di un saluto per messaggio. Io sono ancora senza internet perché il roaming della SIM del Montenegro non funziona, ma Shrzed si offre di farmi da hotspot con il proprio cellulare. Nel frattempo ascoltiamo Marshi i UÇK (la marcia dell’esercito di liberazione del Kosovo). Immagino abbia svolto il ruolo di Bella Ciao ai tempi della guerra, Shrzed dice che se capissi il testo mi commuoverei anch’io. Credo che fosse questa quella che intendeva, ma magari si riferiva al brano che ha fatto partire subito dopo. Mi sembra che sia questa.

12:10

In novanta chilometri, quattro soste coca e musica hip-hop a palla non facciamo un sorpasso, la guida è perfetta e la velocità è da manuale. Ripensandoci non lo rifarei, per vari motivi, ma la prima impressione era giusta e Shrzed ha fatto letteralmente di tutto per non mettermi a disagio mentre cercava di arrivare al lavoro mantenendosi in condizioni decenti. Nel tragitto ho anche imparato che la coca di buona qualità è bianca brillante e sfregandola tra le dita scompare diventando incolore. Questa non era di buona qualità e ha richiesto qualche fazzoletto da naso.
A Prishtina piove, c’è freddo e c’è traffico. Ci scambiamo i contatti e poi Shrzed sale in casa dieci minuti prima di proseguire verso il centro. Non c’è bisogno che mi porti fin là, faccio prima io a piedi e mi levo il pensiero di essere a bordo con un cocainomane supergentile.
Scendo verso la zona della città dove dalla mappa mi sembra che si trovi il centro e passo accanto alla cattedrale dedicata a Madre Teresa. Fuori fa freddo e piove parecchio, quindi spingo l’enorme portale di legno ed entrò in una cattedrale deserta, costellata di secchi per raccogliere l’acqua dispettosa che in alcuni punti si insinua attraverso il tetto. Mi fermo un po’ a pregare e scopro che non sono solo, c’è anche il cappellano.
Esco, evitando per un pelo che l’inerzia faccia sbattere il portale con un boato e cammino ancora finché non trovo una piazza e un wifi gratuito per avvisare Shpetim, uno che abita qui e che ho contattato tramite Couchsurfing per incontrarci stasera.
Il prossimo passo è mangiare, quindi vado a procurarmi un pranzo notevole e torno in piazza a mangiare. Questa non è una piazza qualsiasi, ma è quella dedicata al protettore del Kosovo, l’eroe dei due mondi. Non parlo di Garibaldi, ma del mitologico Gjorgj Kastrioti Skënderbeu (o Skanderbeg), di cui mi ha parlato Riçard quando l’ho incontrato mercoledì scorso. La sua statua equestre campeggia nella piazza, da sopra all’alto basamento che riporta il suo nome per esteso. A un tratto nelle nuvole si apre uno spiraglio squarciato da sole e per un attimo sogno di vedere Skanderbeg incorniciato da un arcobaleno, ma non piove abbastanza.
Mi siedo in una delle casette di legno vuote dei mercatini di Natale, perché fuori le panchine sono fradicie e c’è anche vento.
Dopo mangiato faccio un sopralluogo in una zona della città potenzialmente utilizzabile per campeggiare, ma il terreno è fangoso ed è cosparso di cartacce e rifiuti. Niente, stasera si va in ostello.

17:10

Shpetim ha già finito di lavorare e ci troviamo a bere una birra. Lui ha trent’anni e lavora come manager finanziario di progetti di sostegno alle organizzazioni non governative, in generale. Ha studiato economia perché è decisamente più facile trovare lavoro come manager finanziario che come attore. Nonostante questo resta una persona creativa e il suo lavoro precedente non gli piaceva affatto perché calcolare le buste paga uccide la creatività, come si può ben immaginare. Adesso invece ha un po’ più margine di manovra nella gestione dei progetti.
Abbiamo interessi diversi, non c’è dubbio, e la conversazione sarebbe destinata rapidamente al naufragio, se non fosse che lo scopo principale di questo tipo di incontri tra viaggiatori e ospiti è semplicemente il confronto culturale. Basta un minimo di curiosità per interessarsi a capire come si vive in un altro paese, perché traspare ben poco da ciò che si vede durante una visita turistica. Così parliamo di economia, di tradizioni, di donne, di uomini e di storia.
Tanto per cominciare, da queste parti il salario di un lavoratore qualificato è la metà del mio stipendio da operaio in Italia. Ad eccezione delgli alimenti e di carburante, qui i beni costano quanto in Italia, la differenza la fanno le marche e i negozi dell’usato. In particolare la tassazione sull’importazione delle auto è altissima, in pratica un terzo del prezzo di acquisto è dovuto alle tasse di importazione. Il Kosovo non produce automobili e deve importarle tutte, perciò molti vanno a comprare la macchina in Macedonia. Questo spiega, credo, perché Riçard ha guidato la Renault Trafic dalla Svizzera a qui per poi dimenticarla a casa di Edi e tornare indietro in aereo.
Poi mi parla dei suoi ricordi della guerra, che aggiungono dettagli importanti al quadro. Appena è stato possibile varcare il confine del Kosovo, la sua famiglia è fuggita in Albania prima di ritrovarsi in zona di guerra. Ci sono voluti tre giorni per arrivare a Tirana, a causa della lunghissima coda di macchine formatasi prima della frontiera. Shpetim aveva sette anni e ricorda perfettamente i lati della strada letteralmente tappezzati di carte d’identità e fotografie. È questo che cercava la polizia serba al confine, le tracce dell’identità delle persone e della loro memoria. Sono state distrutte entrambe prima che potessero lasciare il Kosovo.
Inoltre c’è un altro aspetto molto interessante relativo all’ospitalità che ho ricevuto qui e al diverso comportamento dell’esercito serbo e delle milizie kosovare nei confronti dei civili. Deriva in gran parte da un antico codice di d’onore chiamato Kanùn, che affonda le radici nel passato feudale dell’Albania. Questa norma di comportamento sottolinea la sacralità degli ospiti, anche se si tratta di nemici. Un tempo l’ospite in arrivo consegnava la propria arma da fuoco al proprietario di casa, che la poneva sopra al camino, in modo che rimanesse asciutta, ma bene in vista a titolo di garanzia. A questo punto chiunque viene trattato con il massimo riguardo senza che gli si richieda di alzare un dito.
L’altro punto cruciale di questo canone è la resa dei conti tra famiglie rivali. Ogni offesa di sangue deve essere vendicata nel sangue, ma l’omicidio non può essere commesso in presenza di donne e bambini, e la vittima deve essere un uomo di maggiore età. A causa di questo sistema di regolazione dei conti alla maniera di Cosa Nostra, durante la guerra l’esercito di liberazione ha combattuto senza uccidere i civili. Chiaramente ci sono state delle eccezioni, ma al contrario l’esercito serbo ha praticato lo sterminio in maniera sistematica, non solo in Kosovo.
Come è bene che sia, i fatti accaduti durante la guerra non impediscono a Shpetim di avere ottimi rapporti con gli amici serbi, perché non sono stati certo i civili a macchiarsi dei crimini di guerra di cui tutti mi parlano. È un ragionamento corretto, ma per niente scontato vista l’ingerenza che la Serbia ha tutt’ora all’interno del Kosovo. Ora che questo territorio è diventato formalmente indipendente, il governo serbo cerca di impossessarsi del suo passato culturale per rivendicarne la sovranità. Un esempio è un’antica chiesa cattolica di Pejë, che poco prima della guerra è stata convertita al culto ortodosso e ora è chiusa da un muro sormontato dal filo spinato. I militari italiani controllano il perimetro del muro per evitare episodi violenti e mantenere la pace, ma resta una spina nel fianco per gli abitanti. Lo stesso processo è stato tentato nelle scuole, ma l’orgoglio nazionale e l’identità culturale sono sopravvissuti ai tentativi di cancellazione.
Shoetim è molto acuto nel porre le proprie domande riguardanti il mondo esterno, spesso mi è difficile rispondere subito. Parlo del mondo esterno perché i cittadini del Kosovo per viaggiare all’estero hanno bisogno di un visto, che è costoso e soprattutto difficile da ottenere con un passaporto riconosciuto da meno della metà degli stati del mondo. Chi nasce in Kosovo può visitare senza visto solo Albania, Montenegro, Serbia, Macedonia del Nord Turchia, Ecuador e Gambia. Serve un visto anche per visitare l’UE. Per questo motivo ogni mia conversazione con i kosovari arriva sempre a toccare questo tasto dolente, tanto che ormai mi aspetto di dover giustificare con ciascuno la mia libertà di movimento.
Dopo la birra, offerta da lui che mi ospita, Shoetim deve andare, ma lo seguo per un buon tratto per prolungare ancora un momento questo incontro appassionate. Alla fine lo lascio andare, ma sono ancora stupito da quanto siano state dense queste due ore passate in un bar con uno sconosciuto con il quale in fondo condivido ben poco. Non abbiamo neanche menzionato il tempo atmosferico e il tempo è volato.

19:40

In un attimo sono all’ostello, che è gestito da un amico di Shpetim e si trova esattamente in centro. Qui ci sono viaggiatori della Germania, Danimarca, Albania e Turchia, più due amiche originarie del Kosovo e una svedese che lavorano qui in cambio di vitto e alloggio. Incredibilmente, c’è anche un giovane insegnante di musica che abita qui a Prishtina, ma ogni tanto paga una notte in ostello per stare in compagnia di noi viaggiatori. C’è anche Eric, californiano, che ha la mia età ed è volontario qui all’ostello, ma nel frattempo lavora anche online come programmatore.
Dopo esserci messi d’accordo sulle regole per giocare a Uno, che come si sa variano di casa in casa, facciamo qualche partita al gioco per eccellenza che rovina le amicizie. Nel frattempo fuori inizia a nevicare copiosamente. Dopo Uno è il turno di Jenga, il gioco dove perde il primo che fa cadere la torre di mattoncini. La penitenza è obbligo o verità e, più o meno casualmente, Rita fa cadere la torre nove volte su dieci. Dena, la sua amica, la conosce bene e di fatto si assume l’incarico di inventare le penitenze. Da cosa nasce cosa e va a finire che Rita e Florim (Flo) escono all’una di notte sotto la neve a baciarsi in strada, nonostante il freddo e il coprifuoco. Mentre si baciano un cane di passaggio si ferma a fargli le feste. Finita questa terribile penitenza i tre se ne vanno in direzione opposta all’ostello e si ripresentano dieci minuti dopo.

3:15

La serata prosegue e Dena decide di restare sveglia fino a domattina. Io intuisco che andrà a finire così anche domani sera e vado a letto qualche ora. Domani devo incontrare Gezim, un’altra persona contattata su Couchsurfing.

1 commento su “La prima nevicata, a Prishtina”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *