La scalata del monte Pashtrik, per la patria

Le condizioni meteo di questi giorni e i chilometri percorsi hanno impedito l’attività di scrittura. Ora a Sofia ho un po’ di giorni per recuperare.

Lezione di ieri: Cercare di scrivere e basta per tutto il giorno è assolutamente inefficiente.

Domenica 28/11/2021 5:10 – Pejë (Kosovo)

Ero troppo stanco ieri sera per riuscire a preparare lo zaino, quindi ho puntato la sveglia con largo anticipo.
È facile scegliere che cosa portare, ma la quantità di oggetti e di cibo che rimane a casa è sconvolgente. Sollevo lo zaino con forza e per poco non perdo l’equilibrio, è talmente leggero che non sembra neanche di averlo addosso.
Martin dorme, mi dice sempre che non ha dormito tanto bene e adesso dorme. Che faccio lo sveglio? Certo che no, faccio come a casa e quando torno di solito vengo sgridato.
Salgo in macchina con Henri e partiamo. Non saremo solo in due, dobbiamo passare a prendere Fidan, Sokod, la moglie di Henri e un paio di caffè. Nel frattempo inizia a far chiaro e verso le 6:45 sorge il sole, perché qui sono nella parte più a Est del fuso orario GMT+1. Finora l’ho dato per scontato, ma qui il sole sorge parecchio prima che in Italia e tramonta verso le 16:30.
Lungo la strada inizia a piovere, ma resta una striscia di cielo all’orizzonte, quello che basta per far apparire due arcobaleni alle nostre spalle. Con questo cielo plumbeo, se il sole non fosse velato dalle nuvole probabilmente si vedrebbero anche il terzo e il quarto arcobaleno a un palmo di distanza dal sole. Per la cronaca, ho scoperto di recente che esistono molti altri arcobaleni oltre ai due che si osservano di solito e il terzo, il quarto e il sesto arcobaleno sono vagamente distinguibili solo in condizioni di luce particolari.
Dopo una sosta per le foto ci dirigiamo verso la montagna di oggi, dove il tempo è un po’ migliore ma sta comunque piovviginando.

9:35

Per arrivare in cima al bieshka Pashtrik (il monte Pashtrik, sto imparando un po’ di vocaboli) c’è una strada non asfaltata che arriva fin sotto la vetta. Il cielo è parzialmente sereno, ma vista la pioggia e soprattutto il vento Henri decide di salire parecchio prima di parcheggiare. Da lì iniziamo a salire lungo la strada, che apparentemente è l’unico percorso per raggiungere la cima. Qui si è combattuto durante la guerra, ma la zona è stata sminata. Nonostante questo, non ci sono sentieri fuori dalla strada principale perché tanto in inverno non si vedono o almeno così dice Henri.
Il programma di oggi è di incontrare in cima un gruppo di escursionisti provenienti dal versante albanese, perché oggi si festeggia l’indipendenza dell’Albania, dichiarata il 28 novembre 1912.
Facciamo una sosta per aspettare un altro gruppo di escursionisti e si coglie l’occasione per fumare una sigaretta a bordo strada. La perizia dei kosovari è arrivata fino qui e dove ci siamo fermati spuntano dalla neve una bottiglia di plastica e una sacchetto di patatine. Un attimo dopo la moglie di Henri prende l’ultima sigaretta dal pacchetto e lo getta via. Non potendo chiedere spiegazioni direttamente a lei che parla solo albanese, mi rivolgo a Fidan per capire il motivo di questo comportamento così diffuso. Lui mi risponde che forse lo fanno perché non sono brave persone e dicendolo raccoglie la bottiglia vuota che ha davanti e anche il pacchetto di sigarette ritorna in tasca alla proprietaria. Dopo un paio di minuti Fidan getta via la bottiglia e mi spiega che loro ogni tanto raccolgono i rifiuti, ma solo quando c’è bel tempo, quindi oggi no. Non penso di aver capito, ma dopo questa ci rinuncio.
Dopo qualche chilometro arriviamo al capolinea della strada sterrata ed entriamo nel bivacco costruito poco più su, per stare un po’ al riparo dal vento prima dell’ultimo tratto verso la vetta. Qui le raffiche soffiano a circa 50 km/h sopra il terreno innevato e bisogna bloccare la porta con una spranga per evitare che si spalanchi con il vento.
Dentro il bivacco c’è un tavolo con tre panche, un po’ di grossi mattoni forati e due scaffali di metallo. Sugli scaffali c’è qualche vecchia confezione di non si sa cosa e alcune candele, mentre a terra c’è un pallet bagnato fradicio e un po’ di bottiglie, bicchieri di plastica e pacchetti di merendine.
Henri e alcuni altri montanari appena arrivati accendono il fuoco. Una candela per accendere la plastica sparsa in giro, che dà fuoco alla legna bagnata e in dieci minuti il pavimento è quasi pulito e il pallet fatto a pezzi sta bruciando nel falò acceso in terra. Esco a cercare un po’ di legna, ma non è facile qui dove non c’è il bosco, trovo solo un ciocco umido e torno dentro di corsa per paura che qualcuno dei nuovi arrivati scambi il mio bastone stagionato per un pezzo di combustibile extra.
Henri mi chiede se sto bene, se va tutto bene. Certo che va tutto bene, andare in montagna con la neve e accendere fuochi nei bivacchi è esattamente quello che amo fare con gli amici in Italia.
Restiamo nel bivacco per un’ora e nel frattempo l’ambiente si riempie di escursionisti, che entrano ed escono continuamente. Solo quelli intorno al fuoco sono seduti, gli altri sono tutti in piedi perché siamo in trenta in uno spazio di quindici metri quadri. Ad un segnale convenuto e impercettibile, tutti escono come uno stormo di uccelli migratori per salire verso la vetta armati di bandiere rosse con l’aquila bicefala.
Un gruppo di venti persone si ferma da un lato a fare una foto di gruppo, dispiegando un’enorme bandiera grande come un lenzuolo matrimoniale.
Noi cinque invece ci dirigiamo sul sentiero a tornanti che porta alla vetta, insieme agli altri due escursionisti che aspettavamo. Uno di loro percorre il calvario con in spalla una pesante insegna ricoperta da un sacco di plastica nera.
Siamo sottovento rispetto alla vetta e salendo il vento aumenta di intensità, mentre l’aria diventa più tersa e luminosa. Per esperienza, come Magnus e Giordan sanno bene, quando il vento soffia a 80km/h e ti arriva di lato, è difficile camminare in linea retta e si inizia a sbandare. Qui stiamo salendo controvento perciò è sufficiente sbilanciarsi in avanti per procedere, ma non siamo ancora in cima. In prossimità della vetta la neve si assottiglia e scopre i ciuffi d’erba ricoperti di ghiaccio, ottimi per fare presa. Ci siamo ancora tutti, io e il portatore dell’insegna alla testa del gruppo. Ormai avanziamo solo tra una raffica e l’altra, fermandoci carponi quando il vento si intensifica. Uno alla volta guadagnamo la vetta, raggiungendo altri quattro escursionisti che ci hanno preceduto. In cima è sepolto uno dei caduti della guerra e c’è un altro muretto di sassi alto un metro, perciò ci sediamo dietro a questi due ripari. Io mi sono già tolto il cappello di lana per paura che voli via, Fidan invece lo ha tenuto e gli dice addio durante una raffica. C’è così tanto vento che temo che possa volare via anche il bastone.
Fin qui il mio nome per Fidan e gli altri è stato Giancarlo, ma arriva da noi un amico kosovaro di nome Renato e allora divento Renato anch’io.
Nel frattempo due dei nostri stanno erigendo in pieno vento una piramide di pietre per sostenere l’insegna tonda con incisa l’aquila bicefala e le lettere UÇK, acronimo dell’esercito di liberazione nazionale del Kosovo. Se qualcuno vuole vedere il patriottismo all’opera, può venire in questo paese.
Decido di cambiarmi le calze perché i pantaloni leggeri e le calze corte sono decisamente insufficienti con questo vento. Faccio in tempo a cambiare un calzino ed è già ora di scendere. Meno male perché a restare qui seduti sto perdendo sensibilità alle dita dei piedi, e sicuramente non sono l’unico. La discesa è molto più semplice, basta scendere nella direzione del vento per trovarsi quasi subito al riparo dalle raffiche e scendere tagliando o tornanti e scivolando nella neve.
Rientriamo al bivacco, dove il fuoco brucia ancora, per riscaldarci un po’ e pranzare. Finalmente scopro l’uso delle salsicce affumicate che compro qui nei supermercati. Non si mangiano fredde come un salame, ma si appoggiano sulle braci finché l’esterno non è un po’ bruciacchiato. A questo punto il grasso si è sciolto e la salsiccia si scioglie in bocca. Forse è così che le avevo mangiare l’ultima volta, ma è stato almeno dodici anni fa e non mi ricordo proprio se fossero calde o fredde.

13:30

È giunta l’ora tornare a casa perché qui il meteo sta per peggiorare e non sarebbe carino farsi sorprendere da una bufera. Sulla via del ritorno faccio qualche domanda a Henri riguardo agli anni della guerra, scoprendo che lui aveva vent’anni e che è rimasto in patria a combattere. In questo momento siamo fermi ad aspettare il resto del gruppo, e lui mi spiega che una volta vent’anni fa è rimasto in piedi nella neve per dodici ore di fila, aspettando i serbi.
A diciotto anni è stato incarcerato per qualche mese e quando ne è uscito è andato in Albania, dove è stato addestrato dalle forze armate americane, se non sbaglio. Poi è tornato in Kosovo, a combattere sui monti di Pejë, che in quegli anni sono stati ribattezzati “la zona di fuoco” o qualcosa del genere. Quando lui è arrivato, inizialmente erano appena in trecentocinquanta uomini, ma poi sono via via aumentati fino a diventare un migliaio alla fine della guerra. Un migliaio di guerriglieri a difendere le montagne contro l’esercito serbo. Non riesco a immaginare come sia andare in guerra a vent’anni, ma non ce n’è bisogno, perché Henri aggiunge che aveva un commilitone di sedici anni.
In breve siamo di nuovo alla macchina, carichiamo gli zaini nel baule e una raffica di vento rompe l’occhiello di uno dei pistoni oleodinamici che tengono aperto il baule. Non è volata via la porta del baule, è solo per dare un’idea di quanto vento c’era. Siamo fradici di pioggia ma al caldo, e i vetri si appannano all’istante.
Per tornare a casa passiamo dal centro di Prizren, che però a quest’ora è pieno di macchine che si incastrano negli incroci senza semaforo e strombazzano per uscirne. È dura, ma alla fine ne usciamo, liberi di tornare a Pejë senza intoppi, ma non senza un ultimo caffè.
Henri prosegue a raccontare. Ora che la guerra è finita lui va ancora in montagna, a volte entra anche in Serbia superando i monti. Ora è sposato con la stessa donna che ha conosciuto prima di andare a combattere per due anni.
Dopo la guerra è stato di nuovo in prigione, perché gli piacevano i soldi facili, ma ora lavora come autista di autobus per una compagnia privata. Precisa che per i soldi non ha mai ucciso nessuno.
A un tratto se ne esce con una massima di vita che mi tiene impegnato per mezz’ora. “Noi non siamo fatti per correre, ma per camminare. Se corri, ti tiri addosso ogni tipo di problema.” È un’affermazione forte, che contraddice apertamente Bruce Springsteen e Douglas Adams. Prova a spiegarmi la metafora, ma non sto capendo.
Più tardi riesco a fare il parallelo con quello che mi ha detto: lui sa che non bisogna avere fretta perché nella vita ha corso e si è procurato parecchi guai, ora sta camminando e le cose vanno meglio. Solo che gli fa schifo guidare quell’autobus tutti i giorni, ha in mente di fare la guida per i gruppi di turisti che vengono in Kosovo per fare un trekking in montagna. Quando l’ho incontrato mercoledì pensavo che di mestiere facesse la guida escursionistica, e non riesco a immaginare un lavoro più adatto per uno che conosce le montagne di Pejë come le proprie tasche e parla anche inglese.
Torniamo a Pejë, riportiamo a casa Fidan e Sokod, poi facciamo un giro al bar Vanilla, dove ormai mi sento un cliente abituale. Si ripete la solita scena dello zaino, ma mentre inizio il solito discorso sull’importanza del mio zaino, Henri taglia corto perché ha già capito al volo. Sono sempre più ammirato di quest’uomo.
Insieme a Henri, sua moglie e me, al bar arriva anche uno dei loro due figli, che è anche un pugile e in effetti un po’ si vede. Henri quando ne parla lo chiama fratello invece che figlio, il che è piuttosto divertente, e mi ha raccontato che agli incontri di boxe suo fratello è una macchina da assalto, nessuno vorrebbe fargli perdere le staffe, né dentro né fuori dal ring. Al bar però è un tipo simpatico e le sue doti sono insospettabili.
Finito anche questo incontro, Henri mi riporta a casa da Martin. Dopo aver ringraziato per questa giornata pazzesca, varco la soglia e scopro che il mio tedesco fa proprio schifo. Stamattina Martin non aveva idea di dove fossi.
Per fortuna Riçard era al corrente dei miei programmi con Henri e ha risolto subito il malinteso, ma evidentemente ieri sera quando abbiamo parlato del monte Pashtrik, non si è capito proprio niente di quello che ho detto.
Quello che è fatto è fatto, da adesso in poi userò il traduttore anche per il tedesco.
Scrivo un po’ in sala e a un certo punto Martin cambia canale e compare il Fol Shqip Show, una trasmissione che va in onda oggi per celebrare l’identità culturale del popolo albanese. (Fol Shqip si legge “fol sc-cip” e significa parlo albanese) In pratica è una carrellata di video amatoriali di bambini e ragazzi che salutano i presentatori dello show o recitano delle poesie. Non so che cosa dicano, ma lo dicono bene.

21:20

Vado in camera per scrivere e per cenare, mi dispiace mangiare in sala davanti a Martin, che è stato messo a dieta dal medico. Gli ho offerto una mela e mi ha fatto vedere la lista di quello che può mangiare, e non ci sono mele nel menù.
È ora di lasciare Pejë, ormai è parecchio che sono fermo qui per aspettare il giro in montagna di oggi. Mi aspettavo di camminare di più, ma per quanto breve la camminata è stata decisamente intensa. Sono piuttosto sicuro che il vento lassù sul bieshka Pashtrik superasse i 100km/h, che mi sono sempre chiesto che aspetto avessero. Niente male questi montanari del Kosovo.

2 commenti su “La scalata del monte Pashtrik, per la patria”

  1. Grandissimo Palla!
    Finalmente sono riuscito a rimettermi in pari con il tuo giornale di viaggio.
    Come al solito le tue storie sono interessantissime e la leggerezza con cui le racconti permette di leggerle senza stancarsi ( e poi certi aneddoti fanno davvero sbellicare…)
    Continua a tenerci aggiornati, confidando che il tuo viaggio possa proseguire senza intoppi!

    P.s. Ti saluta anche matte che ti segue assiduamente

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