Lezione di ieri: Matteo 6, 25-26. (Due versetti prima del bigliettino pescato ieri sera al bar)
Martedì 16/11/21 7:05 – Mostar (Bosnia e Erzegovina)
È arrivato il bonifico? No, non ancora. Mentre aspetto faccio la doccia e mi preparo per andare a prelevare i contanti prima della colazione.
Finalmente, dopo tre giorni di attesa, posso risolvere definitivamente il pagamento dell’ostello, fare colazione e levare le tende.
Natan e Jane mi raccontano che ieri la nonna gli aveva confidato la sua preoccupazione per l’ospite insolvente.
10:16
Consegno le chiavi e, dopo due lunghi giorni riesco a strappare un sorriso alla nonna. Ora che ci siamo rappacificati, devo assolutamente chiederle come si chiama. Di tutti i nomi possibili in questo paese con i nomi strani, la nonna si chiama Lea. Più nonna di così c’è solo nonna papera.
Mostar ormai è sovraccarica di emozioni contrastanti, buone e cattive, e ormai non vedo l’ora di lasciarmela alle spalle. È un privilegio, chi ci abita non può decidere di partire così alla leggera.
Passando davanti alla moschea principale incontro di nuovo Ibrahim, la guida turistica che mi aveva offerto una visita guidata ieri mattina. Ho solo cinque marchi e mi servono per gli ultimi acquisti, ma lui spiega comunque alcune curiosità riguardo alla moschea dell’occhio nero (Karađozbeg džamija). Il nome viene dal finanziatore della costruzione della moschea, che è sepolto nel piccolo cimitero sul retro. Le tombe musulmane hanno due cippi, uno indica la testa e l’altro i piedi. Il cippo degli uomini ha una sorta di turbante stilizzato, mentre le donne hanno solitamente un cippo a punta. La pavimentazione anti-tacchi alti in realtà è stata concepita come massaggio ai piedi e nel cortile della moschea i ciottoli del selciato sono disposti in verticale. Ibrahim parla fluentemente sei lingue e lavora letteralmente per strada offrendo visite guidate ai passanti. Mi spiega che tutto dipende dalla famiglia in cui nasci, se hai la possibilità di studiare e di avere un titolo di studio cambia tutto. Lui conosce le lingue, ma non ha una laurea. Questa è la Bosnia, talento non riconosciuto. Da ultimo mi indica il monumento ai tre giornalisti italiani uccisi a Mostar durante la guerra.
Cammino a lungo, ma non lo trovo, quindi ripasso dal centro e investo quattro marchi in cartoline e souvenir e con un marco compro il pranzo.
12:40
Ora che ho lasciato l’ostello, è ora di lasciare anche Mostar. Mi allontano dal centro e scrivo “Kotor” sulla busta di carta che conteneva le cartoline. Non ci sono cartoni qui a Mostar, il centro è pulito e nella periferia ci sono solo rifiuti. Dopo una mezz’ora di attesa infruttuosa decido di spostarmi e in un distributore di benzina trovo un pezzo di quel finto parquet che avevo usato per fare l’autostop da Rijeka a Bihać. So già che funziona bene e mi danno il permesso di prenderlo.
Solo ora mi rendo conto di quanto sia pretenzioso scrivere “Kotor” e inizio con “Buna”, che è qui a dieci chilometri. Non è facile, ma ben presto arriva il mio passaggio per Buna, a circa dieci chilometri. Salgo a bordo con Mijro, che ha circa cinquant’anni e si sta recando nella sua seconda casa, a Buna. Non è vaccinato perciò ora non può più lavorare come cameriere e si sta trasferendo nella seconda casa per vivere di sussistenza, come è ancora abbastanza comune fare da queste parti. Nella vita ha lavorato come cameriere e ha sposato una svedese, con la quale ha abitato in Svezia e ha avuto due figli. Mi racconta che il primo dei due figli è morto, mentre il secondoha problemi di salute molto gravi. Entrambe queste disgrazie sono avvenute proprio quando i suoi figli hanno ricevuto le vaccinazioni obbligatorie in Svezia. Ogni volta che racconta questa storia si sente ripetere la frase registrata che i vaccini sono sicuri e che probabilmente non c’entrano. È come pretendere di sapere meglio di lui quello che è successo. Per questo motivo ha rotto i rapporti con diverse persone che si sono dimostrate irrispettose e presuntuose. Ha perso un figlio di due anni, un altro ha una disabilità permanente e in questa situazione drammatica ha perso anche il matrimonio. Di fronte alla sua storia, tutto quello che si può fare è comprenderla, credo. Chi sarebbe così sfrontato da cercare di far valere la propria parola contro la sua?
Nonostante questa vita che cerca di abbatterlo, lui ha ancora dei progetti e fiducia nel futuro. Mi lascia alla svolta per Stolac (che si pronuncia stolaz) e va a trovare suo padre qui a Buna.
14:10
Cammino fino alla fine del paese e in breve accostano Haris e Nejda. Se ricordo bene, lui lavora in una concessionaria mentre lei è insegnante. Ci scambiamo i convenevoli e Haris mi dice quanto i bosniaci sono gentili e ospitali e che nel suo paese nessuno cercherà di derubarmi.
“Ehm, beh, come te lo posso dire, devi sapere che sabato scorso…” Almeno quei due hanno detto di essere tedeschi e mezzo croati, così hanno salvato la buona reputazione della Bosnia.
Rimango a bocca aperta quando mi raccontano che esiste in Polonia un’università che ogni anno organizza una competizione di viaggio in autostop. Ci si iscrive a coppie e bisogna raggiungere Jajce nel minor tempo possibile viaggiando esclusivamente in autostop. Dicono che a questa iniziativa partecipano più o meno trecento coppie ogni anno.
Mi portano fino a Stolac, dove c’è il bivio che porta a Trebinje (pronunciato trebigne).
14:35
Mi alleggerisco segando a metà il cartello di legno con il coltellino svizzero e faccio qualche foto al monumento ai caduti della guerra che c’è in centro a Stolac. Stolac è poco più che un paesino, ma ci saranno state almeno sessanta persone incise sulla lapide.
Qui non c’è alcuna piazzola per far fermare le macchine, quindi mi incammino lungo la strada in salita. Tre chilometri dopo raggiungo un posto adeguato, di fronte alla prima casa di questa via, dove abita una mamma con due bambini. C’è pieno di passeri che svolazzano tra gli arbusti, che qui sono ancora colorati con le tinte autunnali. Quello che manca è la connessione internet, qui nella valle il mio telefono non prende.
Le macchine sono poche e dopo una mezz’ora mi nota il grosso cane della mia dirimpettaia, che inizia ad abbaiare. Non si ferma, riprende fiato e continua, fa qualche passo e continua. Finalmente la donna esce per la seconda volta e gli spiega che la deve smettere. Non si è ancora fermato nessuno e la luce rossa proiettata dal sole sulle foglie ingiallite del versante opposto di questa valle ormai è scomparsa. Non ho modo di usare Google traduttore per sapere dove posso dormire, ma mi ricordo di quando sabato ho chiesto a nonno Edo se ci sono mine nei dintorni di Mostar: “Ima li mina quij blizini?” Dice di no, no mina, da qui fino alla montagna.
Perfetto, hvala e arrivederci.
Ignoro il divano a due piazze in pelle che c’è qui a cinquanta metri e proseguo con le ultime luci del giorno fino al confine con la Republika Srpska, imboccando una strada sterrata che si inoltra in un arbusteto e probabilmente raggiunge un gruppo di case situato qualche chilometro più in là.
Mi inoltro nella macchia finché sono sicuro di essere invisibile, poi cerco un paio di alberi abbastanza grossi da sopportare la tensione dell’amaca. È un compito impossibile perché in questa valle deve esserci stato un incendio negli ultimi dieci anni e i fusti legnosi non sono più grandi del mio braccio e anche gli alberi hanno un portamento cespuglioso. Tutti quei rami fitti rischiano di rovinare l’amaca.
17:30
Dopo un po’ di ricerca alla luce della torcia, trovo un posto adeguato. Le estremità della mia lunga corda servono per ancorarmi a quattro rami allineati e distribuire il carico sui fusti esili ed elastici. Nonostante questo, quando mi siedo le chiome si avvicinano di un metro.
Contavo di arrivare in un posto con un supermercato, ma a quanto pare non è così. La carne che mi ha dato Antun va mangiata con dei fagioli, non la posso sprecare così, quindi stasera porridge scozzese!
Era prevedibile, a forza di parlare di campeggio nei boschi con Antun mi è venuta una voglia incontenibile di una serata davanti al fuoco. Succede la stessa cosa quando parlo di correre con Forack, il giorno dopo parto e corro trenta chilometri.
Mentre cucino, nel cielo stellato spunta una bellissima luna, quasi piena, e illumina a giorno questo arbusteto rado.
22:20
Dopo che le ultime braci si sono spente mi sdraio in amaca e mi addormento quasi subito, mentre sto ancora cercando di scrivere qualcosa.
Nonna Lea è una nota marca di erbazzone (reggiano) e altre specialità tipiche, di devi essere sentito a casa 😉
Hai ragione, dovrei precisarlo nel testo. Sì, sono uscito dall’ostello ridendo perché incontrare nonna Lea a Mostar è stato veramente il colmo.